Villaggi, silos di grano, raffinerie e pozzi petroliferi – minuti impianti che puntellano la Siria del nord-est, estraendo una ricchezza incomparabilmente piccola rispetto ai giganti energetici vicini: a cinque giorni dal lancio dell’operazione turca Claw-Sword restano questi i target, le infrastrutture civili e i centri abitati, da est a ovest del Rojava.

E mentre le Forze democratiche siriane (Sdf) commemorano gli otto combattenti uccisi mercoledì nel raid turco sul campo di al-Hol (distesa di tende dove sono detenuti 60mila miliziani dell’Isis e i loro familiari), qualche protesta si solleva da una Washington finora opaca: «Gli attacchi aerei turchi – ha detto ieri il Pentagono – hanno minacciato la sicurezza del personale Usa che lavora in Siria con i partner locali per sconfiggere l’Isis». Da cui la richiesta: «Immediata de-escalation».

Ne abbiamo parlato con Ronahî Tolhildan, combattente delle unità di difesa femminili curde, Ypj, di stanza a Kobane.

Quanto è alto il rischio di un incremento dell’attività dell’Isis in Rojava a causa dei raid turchi? O di nuove evasioni come tentato a gennaio ad Hasakah?

Ogni attacco all’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est rafforza l’Isis. La Turchia non solo indebolisce le strutture delle Sdf che tengono in custodia i membri dell’Isis, ma dà supporto concreto allo Stato islamico sotto forma di informazioni, risorse, attacchi coordinati. All’inizio del 2022, durante la tentata evasione dal carcere di Hasakah, la Turchia prese di mira i rinforzi che stavano andando lì per fermarla. La città occupata di Afrin è oggi nelle mani di Hayat Tahrir al-Sham (il gruppo qaedista ex Fronte al Nusra, ndr) e ieri mercenari jihadisti si sono avvicinati alle città di Manbij e Raqqa. Gli attacchi jihadisti e quelli turchi vanno visti come parte della stessa aggressione alla rivoluzione e ai suoi valori. Il rischio di un ritorno dell’Isis non è confinato qui: rischia anche l’Europa, rischia il mondo.

Qual è la strategia turca? Occupare velocemente le comunità al confine turco-siriano per chiudere il corridoio nord o fare pressione su Sdf e civili perché scappino, minando la rivoluzione dall’interno?

La strategia militare dei turchi è multipla. Prima tentano di attaccare la società distruggendo la resistenza delle persone, demoralizzandole e scollegandole dall’Amministrazione autonoma. Poi rafforzano le cellule dormienti dell’Isis, come abbiamo visto ieri con le bombe sulle forze di sicurezza del campo di al-Hol. Infine, appena possibile, la Turchia invaderà via terra e tenterà di chiudere il corridoio di terre al confine. Sul lungo termine, i gruppi islamisti dovrebbero stabilirsi nelle regioni occupate, come è successo ad Afrin, Serêkaniyê e Gire Spî. E sembra che gli Stati uniti vogliano raggiungere una «soluzione comune» con la Turchia. Ciò porterebbe a un nuovo Afghanistan.

Quindi un’invasione terrestre è possibile.

Certo. Erdogan lo ha già fatto nel 2018 ad Afrin e nel 2019 a Serêkaniyê e Gire Spî. Né Usa e Russia sono intervenuti. Il primo obiettivo probabilmente sarà Kobane, simbolo della resistenza popolare all’Isis. Già oggi gran parte dei bombardamenti prendono di mira la città e il distretto. Così la Turchia collegherebbe le città occupate, Azaz, Serêkaniyê e Gîre Spî.

Eravate state avvertiti dagli Stati uniti dell’attacco che la Turchia stava per lanciare?

Gli Usa hanno avvertito i propri cittadini qualche giorno prima. Ma era un’azione più volta a diffondere il panico che ad avvertire del pericolo.

Quella attuale è anche una guerra psicologica: una costante pressione militare che – insieme all’embargo de facto – ruba tempo ed energie alla rivoluzione, risorse che potrebbero essere utilizzate per migliorare i già importanti risultati ottenuti.

Questo tipo di guerra a bassa intensità ha effetti sulle persone. Lo Stato turco prende di mira le infrastrutture e i civili per terrorizzare e spingere la gente ad andarsene. Ma le unità di autodifesa e il popolo sono fianco a fianco e difenderanno le zone liberate. Da anni siamo soggetti ai molteplici attacchi turchi, ma la resistenza non è stata mai sconfitta. Non lasceremo le nostre posizioni. La rivoluzione ha compiuto dieci anni e ottenuto moltissimo. Troppo spesso i risultati che la gente ha raggiunto vengono minacciati e distrutti. La pace nella Siria del nord-est è necessaria per chi vive qui ma anche per l’intero Medio Oriente perché è vista da tutto il mondo come modello di liberazione delle donne, autodeterminazione e diversità culturale.

C’è un qualche tipo di coordinamento con l’esercito siriano a difesa del nord-est?

Non esiste alcuna cooperazione con l’esercito siriano.