Lavorando alle carte della Commedia, Dante si era fatto un’idea concreta di come dovesse apparire il suo volume, l’oggetto materiale destinato a contenere i versi del poema; pensava cioè alle fattezze di quel manoscritto che, replicato di copia in copia, avrebbe diffuso la Commedia tra i suoi contemporanei. «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco» (Paradiso X, 22) – adesso, lettore, resta ben chino sul tavolo e medita quel che stai leggendo.

Dante immagina quindi il suo lettore, anzi quasi gli ordina una postura, imponendogli l’attenzione sul testo. Il libro che il poeta immaginava per sé non era di quelli che si sfogliano tra le mani, né distesi né tantomeno distratti dalla passione – come quell’altro volume, il «romanzetto» galeotto che lo stesso poeta metterà sotto gli occhi di Paolo e Francesca.

La Commedia – vorrebbe Dante – va letta al tavolo, «sul banco», in un libro d’ampie dimensioni, magari scritto con littera chiara e posata, la penna eventualmente in mano, pronta ad annotare il testo, per spiegarlo in primo luogo a sé stessi e poi alle future generazioni di lettori.

A quest’idea di libro si conformano i grandiosi manoscritti trecenteschi raccolti nella prima sala della Biblioteca Corsiniana a Roma, là dove inizia il lungo percorso della Ricezione della Commedia dai manoscritti ai media – la nuova mostra per il Centenario dantesco ideata e organizzata dall’Accademia dei Lincei a cura di Roberto Antonelli, Ebe Antetomaso, Marco Guardo, Silvia De Santis, Luca Serianni (Roma, Palazzo Corsini, fino al 25 giugno; catalogo Bardi Edizioni). Si tratta dei primissimi libri nei quali i più antichi lettori danteschi – entro la metà del secolo XIV – trascrivevano e ricopiavano il testo del poema: la galassia delle copie ci si compone davanti, d’esemplare in esemplare, a darci l’idea d’un successo rapidissimo e, volendo, d’una qualche disputa sull’eredità spirituale che accompagnò la prima fortuna della Commedia.

Da una parte gli antichi codici fiorentini, dall’altra quegli esemplari copiati più a nord, nelle terre in cui il poeta visse esule fino alla morte – spicca fra tutti il codice Urbinate 366 della Biblioteca Vaticana –, quasi a rivendicare col prestigio delle loro lezioni, con la qualità del testo tramandato, un’accoglienza del poeta che compete con la sua diffusione a Firenze – città che in vita condannò l’Alighieri.

Del resto, questi libri trecenteschi sono i manoscritti su cui si è stabilito – da Petrocchi (1966-’67) in poi – il testo critico della Commedia, ovvero quell’«originale» ricostruito dai filologi – in assenza d’autografi – nella selva degli oltre ottocento codici che ancora oggi conservano il testo del poema.

Non poche di queste prime copie mostrano d’aver compreso le intenzioni del poeta, e i libri si confanno spesso ai suoi desiderata: manoscritti di studio, che accolgono sui margini le fitte glosse di commento e gli apparati iconografici – quelle miniature illustrative che sono talvolta il riflesso delle maggiori scuole pittoriche del Tre e del Quattrocento (dai «giotteschi», bolognesi-padovani, a Botticelli) e costituiscono un capitolo a sé nella secolare diffusione dell’immaginario dantesco. Del 1472 sono invece le prime edizioni a stampa della Commedia, pubblicata a Foligno, a Mantova e a Venezia, anche qui seguendo il tracciato «eccentrico» e capillare della diffusione dantesca. Da un lato, i libri stampati in piccoli centri – libri «provinciali» potremmo dire, come sarà stato quello del fabbro che, secondo la leggenda, cantava, davanti all’incudine, i versi del suo Dante, imparato, e storpiato, a memoria; e d’altra parte le edizioni di gusto più urbano e signorile.

S’arriva poi ai due grandi eventi dell’«editoria dantesca» in epoca umanistico-rinascimentale: da un lato, il commento di Cristoforo Landino che, ripetutamente stampato fra incunaboli e cinquecentine, riporta nella Firenze dei Medici la palma del culto e dell’erudizione dantesca e dall’altro, nel 1502, la stampa veneziana di Manuzio, col suo rivoluzionario formato «tascabile», vertice materiale d’un nuovo rapporto col testo, più intimo ed elettivo.

Una «liberazione» dal libro medievale, fatto per lo studio e per la glossa, una «liberazione» da quella severa lettura sul banco che lo stesso Dante voleva suggerirci – e così anche il titolo della stampa di Manuzio è in certa misura un amabile tradimento: non più la «Commedia di Dante Alighieri, poeta et theologus…», ma un più leggero Terze rime di Dante, quasi petrarcheggiante.

È in sintesi un cammino nella coscienza letteraria del Paese il percorso che s’attraversa, di sala in sala, visitando nella Biblioteca Corsiniana La ricezione della Commedia.

In Dante, nella produzione e nella diffusione del suo poema, la readership italiana – ed europea (del 1547 la prima edizione all’estero, a Lione) – ha modulato storicamente i suoi gusti, si è contesa un canone stilistico, forgiando quell’immaginario secolare che noi, lettori di oggi, tutt’ora rinnoviamo.

Anche il Sei e il Settecento – secoli di scarso dantismo, per il sopravanzare d’Arcadie e Illuminismi – si rivelano in realtà più complessi del previsto: c’è ad esempio il Dante di Galileo.

E poi arriva finalmente il tempo della consacrazione ottocentesca: il Dante patriottico e risorgimentale, il mito del «poeta patrio» coltivato soprattutto dagli esuli politici – da Foscolo o da Mazzini, che riusciva a leggere «in venti luoghi del poema… l’idea d’una vita collettiva, progressiva del genere umano» (La Santa Alleanza dei Popoli, 1849). E allo stesso tempo il Dante della nuova critica, della filologia scientifica e della letteratura nazionale, ristudiato nelle sue fonti, ripubblicato nelle nuove edizioni e soprattutto commentato dai letterati della nuova Italia – Tommaseo su tutti.

È in questi anni – ed è nelle ultime due sale della mostra – che più chiaramente la ricezione della Commedia diventa un problema nostro, attuale, poiché la fortuna del testo si lega in profondità alla nostra memoria, al «passato prossimo» della nostra attualità letteraria e immaginativa.

Dall’Ottocento in poi – e la mostra lincea lo illustra perfettamente – la memoria di Dante si fa così pervasiva da confondersi quasi con una «memoria involontaria», una reminiscenza semi-spontanea che ha «salato» il sangue dei suoi lettori.

Un piccolo capolavoro, esposto nella penultima sala, vale da esempio di come la Commedia dantesca, sin dai primi dell’Ottocento, fosse ormai destinata ad assumere i valori d’una Pathosformel, memoria ereditaria dell’espressività artistica: in una tavola calcografica del 1822, pubblicata a Bologna coi disegni danteschi dell’inglese John Flaxman, si vede un demone tratto da Inferno 21 che si trascina sul dorso un dannato, tenendolo per le caviglie – «carcava un peccator con ambo l’anche, / e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo».

Flaxman disegna il soggetto mettendo in scena tutta la tensione muscolare del diavolo trascinatore e tutto l’allungamento dinamico del dannato riverso. Noi, visitatori, non possiamo che ricavarne la spaesata sensazione di ritrovarci al cospetto d’una posa già vista, d’un mito già raffigurato… Nella coppia dantesca, del demone e del dannato, rivive infatti la coppia mitologica e neoclassica dell’Ercole di Canova, quello che allunga e scaraventa il corpo di Lica. I demoni dell’Inferno cristiano e l’Ercole neoclassico, la tortura d’un dannato e la morte d’un personaggio mitologico, tutti diversi e però tutti compresenti gli uni agli altri, riuniti e vicendevolmente scambiati in una stessa immagine.

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Cosa leggeva al suo tempo il poeta della «Commedia»?

Ecco l’esempio di come la ricezione dantesca si sia fatta, per noi, indistinguibile dalla memoria espressiva nel suo complesso: si giunge al paradosso, all’anacronismo, per cui Dante «cita» Canova.

Ecco il senso profondo, il merito della mostra lincea: quello d’aver disposto e illustrato, con sapienza critica, la secolare materia storica – dai primi manoscritti sino alle illustrazioni di Doré, dalle dattilografie di Pasolini ai fumetti o le litografie di Baruchello – che segnano nel tempo il trasformarsi del testo dantesco in memoria condivisa, la metamorfosi del documento in mito immateriale e reminiscente.

Al punto che, giunti in fondo, ormai nell’ultima sala, accanto al film muto sulla Commedia (1911), il profilo di Totò all’Inferno (1955), il suo naso ricurvo, il mento storto e prominente, potrà per un attimo sembrarci il più credibile ritratto del poeta.

Oltre alla mostra sulla Ricezione, l’Accademia dei Lincei propone un ulteriore percorso espositivo nella Palazzina dell’Auditorio di Villa Farnesina: Con gli occhi di Dante. L’Italia artistica nell’età della Commedia, a cura di Maria Luisa Meneghetti e Alessio Monciatti (fino al 25 giugno, cat. Bardi Edizioni).

Vi si ammirano alcuni capolavori e molte rarità dell’arte due-trecentesca, dal Giudizio Universale di Guido da Siena (1260-’65 ca.) alla tavoletta con Funerali, Assunzione e Annunciazione della Vergine del Maestro di Forlì (1300-’20 ca.): immagini, figure e architetture che, se viste da Dante, ne avranno influenzato la creatività poetica.

Il docu-film Le vie di Dante porta invece il visitatore nei luoghi d’Italia vissuti e attraversati dall’Alighieri.