Esposizione Internazionale d’Arte a Venezia vedrà il Padiglione nordico (Norvegia, Svezia e Finlandia) trasformarsi nel Padiglione Sámi come riconoscimento del movimento per la sovranità Sami a cui i tre artisti indigeni Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara e Anders Sunna appartengono. Originari del popolo Sami i tre provengono dalla regione di Sápmi (volgarmente nota come Lapponia da cui, con ritrosia degli stessi, prendevano il nome) che oggi comprende ampie porzioni settentrionali della Norvegia, Svezia, Finlandia, e la maggior parte della penisola di Kola, in Russia. Dal suo esordio nel 1962 è la prima volta che il Padiglione nordico viene interamente rappresentato da popoli originari, confermando una presenza che si sta diffondendo nel mondo dell’arte.

Nel 2017 la 57/a Biennale, curata dalla francese Christine Macel, includeva un Padiglione degli Sciamani. Per quanto l’accostamento tra sciamani e missionari sia discutibile, così come una certa ossessione eurocentrica verso l’indigenità come una «spiritualità esorcizzante» (peraltro di responsabilità e paure altrui), fu uno spazio di visibilità. Nella stessa edizione il padiglione Nuova Zelanda presentò Lisa Reihana originaria del popolo Maori mentre nel 2019 quello canadese presentò il collettivo Isuma (Zacharias Kunuk, Norman Cohn, Paul Apak, Pauloosie Qulitalik) i cui membri erano originari del popolo Inuit, volgarmente e in forma offensiva, chiamati Eschimesi.

Non meno interessante fu la performance/protesta No tin shack di Richard Bell artista aborigeno che dopo essere entrato in short list per il padiglione australiano (Biennale 2019), e non essere stato selezionato, portò comunque il suo progetto a Venezia attraverso un finanziamento privato econ il supporto dell’Australian Council e Arts Queensland. La curatela della Biennale di Sidney del 2020 venne invece affidata a Brook Andrew, originario del popolo Wiradjuri. Nomi che è importante far circolare.

[object Object]

Il contenuto politico della produzione dei tre artisti sami è impattante. Nel 2016 Sara ha realizzato una performance dal titolo Pile o´ Sápmi: una montagna di teste di renne visibilmente esposte all’ingresso dei tribunali in cui veniva discusso il caso giudiziario che il popolo Sami aveva mosso contro lo Stato norvegese responsabile del massacro delle renne finalizzato all’esproprio dei terreni da indirizzare ad uso industriale. La crudezza delle teste decapitate sporche di sangue conviveva con la sensibilità nella rappresentazione del nomadismo, e con la presenza di questi animali sia nella lotta che in un’identità collettiva che non vede barriere tra esseri umani, altre specie e natura. I 400 teschi delle renne sono poi stati esposti a Documenta14 nel 2017 e, con un atto piuttosto contraddittorio, acquisiti dal Museo nazionale di Oslo.

Pauliina Feodoroff è invece una regista teatrale, una guardiana della terra, nature guardian, ed è stata presidente del Consiglio Saami, una Ong dal 1956 impegnata nelle lotte politiche dei Sami. Nel suo fare artistico combina conservazione ecologica, teatro e cinema. Il lavoro di Sunna si intreccia alla storia della lotta della sua famiglia in quanto pastori di renne della foresta. Nel 2020 l’artista ha partecipato alla Biennale di Sydney con una installazione site-specific concepita insieme a rappresentanti di popoli originari locali che ha creato un collegamento tra il progetto coloniale del capitano Cook e le questioni affrontate a Sápmi.

Office for Contemporary Art Norway – Oca, commissario del Padiglione nordico, richiama l’urgenza della situazione vissuta oggi da molti Sami – come da tutti i popoli indigeni nel mondo – riguardo all’autodeterminazione, deforestazione e al governo della terra e dell’acqua. Ciò che accomuna il lavoro di questi artisti è la coralità della esperienza condivisa da molte persone indigene nel nostro mondo contemporaneo. Nessun artista appare come un individuo disgiunto dalla sua identità collettiva. Il Padiglione diviene quindi un atto di sovranità indigena che, rappresentando terre e abitanti di una regione originariamente senza confini, simbolicamente capovolge la storia coloniale che, nell’imporre frontiere nazionali, vuole cancellare la terra e la cultura Sámi.

In sinergia con il «Sami Pavilion» tra il 22 e 25 di aprile si svolgerà a Venezia l’edizione 2022 di aabaakwad, un raduno internazionale di artisti, curatori e pensatori indigeni che intende promuovere una riflessione sull’arte indigena da parte di coloro che la creano, curano e ne scrivono. Fondata nel 2018, aabaakwad riunisce oltre 70 artisti, curatori e pensatori provenienti da oltre 39 First Nations e 8 paesi. L’incontro avvicinerà, inoltre, autori indigeni e neri che, per la prima volta, rappresentano i loro paesi in una discussione sulle loro pratiche artistiche e sul pensiero oltre lo stato nazione.

 

SCHEDA

 

Il Cile con le torbiere e il popolo Selk’nam e il giardino della conoscenza dell’Uzbekistan

Credito Benjamin Echazarreta

Il Cile porta in Biennale un progetto collettivo che unisce la storia delle popolazioni indigene con quella dell’ambiente a rischio. È Turba Tol Hol-Hol Tol, indagine sperimentale sulle torbiere della Patagonia, l’ecosistema naturale più efficiente nell’accumulazione del carbonio presente nell’atmosfera e, tuttavia, uno dei meno studiati. Il padiglione è curato da Camila Marambio. Hol-Hol Tol significa «cuore delle torbiere» nella lingua dei Selk’nam, una delle popolazioni native della Terra del Fuoco, in Patagonia. La mostra insiste sugli ecosistemi nel contesto del cambiamento climatico con un processo di risanamento basato sull’unione di scienza, immaginazione e conoscenze tradizionali, proponendo un’immersione nell’esperienza materiale e ancestrale delle torbiere con un’installazione multisensoriale concepita da un team di creativi cileni: l’artista visiva Ariel Bustamante, la storicadell’arte Carla Macchiavello, la cineasta Dominga Sotomayor e l’architetto Alfredo Thiermann. Nel progetto, ci sono anche l’ecologa Bárbara Saavedra esperta di biodiversità, la scrittrice Selk’nam Hema’ny Molina e il produttore culturale Juan Pablo Vergara, tra gli altri.
La Repubblica dell’Uzbekistan presenterà invece Dixit Algorizmi: si focalizza in particolare sul concetto di algoritmo – un’invenzione responsabile del funzionamento di gran parte dei meccanismi del mondo moderno – e il suo creatore, l’erudito del IX secolo, «padre dell’algebra» Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi. Il fulcro sarà un’installazione che reinterpreta la tradizione millenaria dei giardini persiani e babilonesi, con riferimento al luogo in cui al-Khwarizimi sviluppò i suoi studi più importanti: la Casa della Sapienza a Baghdad. (a. di ge.)

 

[object Object]

Eventi collaterali in Laguna. Kapoor e Kiefer, i «big» a Venezia
Anish Kapoor è tra i protagonisti assoluti in Laguna con la grande retrospettiva (fino al 9 ottobre) che gli dedicano le Gallerie dell’Accademia, aprendo un serrato confronto con le opere dei secoli precedenti in un itinerario che propone anche gli ultimi lavori realizzati con nanotecnologia del carbonio. Sempre Kapoor sarà a Palazzo Manfrin, acquistato nel ’700 da un ricco mercante di tabacco e oggi luogo dove l’artista sta realizzando la sua fondazione e un centro espositivo. In dialogo con Tiziano e Bellini, a Palazzo Ducale ci sarà invece Anselm Kiefer (fino al 29 ottobre). Il titolo della mostra nasce dai testi del filosofo veneziano Andrea Emo: «Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce». Il ciclo di dipinti creati per Palazzo Ducale nel 2020 e 2021, si dispiega nello spazio raffinato e imponente della Sala dello Scrutinio. Al Complesso dell’Ospedaletto ci sarà «Penumbra», prima rassegna della Fondazione In Between Art Film, voluta da Beatice Bulgari. Con la cura di Alessandro Rabottini e Leonardo Bigazzi, presenterà una serie di video di Karimah Ashadu (Uk), Jonathas de Andrade (Brasile), Aziz Hazara (Afghanistan), He Xiangyu (Cina), Masbedo ( Italia), James Richards (Uk), Emilija Škarnulyte ( Lituania) e Ana Vaz (Brasile). Si va dai minatori clandestini di stagno di Ashadu nella dell’altopiano nigeriano di Jos a «Pantelleria. Una storia vaga» di Mabedo che racconta l’eredità storica e mitologica dell’operazione Corkscrew durante la Seconda Guerra Mondiale attraverso un processo partecipativo di riscoperta che coinvolge la comunità dell’omonima isola.