«Una delegazione palestinese parteciperà all’incontro di Sharm Al Sheikh, con presenza regionale e internazionale. Per difendere i diritti del nostro popolo alla libertà e all’indipendenza e per chiedere la fine della continua aggressione israeliana contro di noi».

Con questo tweet Hussein Al Sheikh, segretario generale del Comitato esecutivo dell’Olp, considerato in pole position nella successione al presidente dell’Anp Abu Mazen, ha annunciato ieri la sua partenza per la nota città turistica egiziana, assieme al capo dell’intelligence palestinese, Majdi Faraj, dove si unirà oggi alle delegazioni di Israele, Stati uniti, Giordania ed Egitto per un nuovo vertice sulla sicurezza dopo quello tenuto ad Aqaba il 26 febbraio.

POCHI MINUTI dopo un’ondata di proteste palestinesi ha invaso i social. I rappresentanti di vari partiti, di sinistra e islamisti, si sono scagliati contro la presenza dell’Anp a Sharm El Sheikh che ritengono «dannosa e inutile di fronte alle politiche che attua il governo israeliano». Da Gaza è stato lanciato un razzo verso Israele dove è caduto in un’area aperta nei pressi di Nahal Oz senza fare danni.

Rabbia e frustrazione ci sono anche in Fatah, il partito di Abu Mazen e di Al Sheikh. Più voci si sono levate per ricordare che a gennaio l’Anp, in seguito a un raid dell’esercito israeliano a Jenin (10 morti), aveva annunciato la fine della cooperazione di sicurezza con l’intelligence dello Stato ebraico.

Azzam al Ahmad, figura di primo piano di Fatah, ha domandato ai suoi compagni di partito «Perché andiamo a Sharm al-Sheikh se Israele poi non si attiene a ciò che firma?».

Si è riferito alle conclusioni dei colloqui di  Aqaba – voluti dagli Usa per «calmare la situazione» nei Territori occupati – che prevedevano tra i vari punti lo stop per alcuni mesi dei nuovi piani israeliani di insediamento di coloni nella Cisgiordania occupata.

Quando quel punto fu rivelato, quasi tutto il governo israeliano, formato da ministri che in maggioranza vivono negli insediamenti in Cisgiordania, si sollevò contro il vertice appena concluso e il premier Netanyahu negò di aver accettato il blocco della colonizzazione. Ben pochi palestinesi peraltro credono che Israele cesserà i suoi raid «antiterrorismo».

AUTORIZZATI da Abu Mazen, incuranti delle critiche e del rifiuto dei cittadini palestinesi di continuare la cooperazione di Israele, Al Sheikh e Faraj oggi saranno nel Sinai.  Troveranno come interlocutore Tzaghi Hanegbi, il consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu.

Noto per le sue posizioni di destra radicale, Hanegbi insisterà affinché l’intelligence dell’Anp fermi e disarmi con pugno di ferro i gruppi armati fioriti nell’ultimo anno in Cisgiordania con l’approvazione della popolazione palestinese.

Un passo che, se fatto, potrebbe scatenare una sollevazione contro l’Anp che già deve affrontare ampie proteste (l’ultima è quella degli insegnanti con stipendi da fame). Un sondaggio diffuso qualche giorno fa, mostra che la maggior parte dei palestinesi considera la lotta armata l’unica strada per mettere fine all’occupazione israeliana.

INTANTO ieri sera, per l’undicesima settimana consecutiva, centinaia di migliaia di israeliani hanno invaso il centro di Tel Aviv e di altre città per protestare contro la riforma della giustizia che il governo Netanyahu è vicino a realizzare in Parlamento. La tensione politica e sociale è molto alta e il capo dello stato Herzog, che si è visto respingere da Netanyahu una proposta di compromesso, avverte che il rischio di una «guerra civile» è sempre più concreto.

La polizia ieri ha fatto uso di cannoni ad acqua per riaprire le strade chiuse dai manifestanti mentre sostenitori del governo hanno attaccato i contestatori della riforma a Or Akiva e nei pressi di Beit Shemesh durante proteste contro il ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir.