Povera, rurale, disastrata dalle speculazioni bancarie e dalla fuga dei posti di lavoro, l’America «lasciata indietro» che ha nutrito la scalata al potere di Trump è a Cannes in due film Usa diversi e geograficamente agli antipodi tra loro –il noir nevoso e tesissimo di Taylor Sheridan (già qui l’anno scorso con la sceneggiature di Hell and High Water), Wind River (Un Certain Regard), ambientato in una riserva indiana del Wyoming, e The Florida Project , di Sean Baker (Quinzaine). Dall’energia iperbolica e dai colori elettrici del suo magnifico Tangerine (girato con l’IPhone e un adattatore da pochi dollari per convertire l’immagine in scope), a una palette di pastello elegantemente spalmati sul 35mm, Baker esplora un paese relegato, letteralmente parlando, alla soglia del Magic Kingdom. Girato nella galassia di motel cresciuti alla periferia di Disney World, nei dintorni di Orlando, e oggi popolati di famiglie rimaste homeless, The Florida Project usa le architetture approssimativamente esotiche, i rosa e gialli vivaci, i fast food a forma di arance giganti e la vegetazione tropicale che sembra sbucare dall’asfalto, per evocare un senso di fiabesca avventura infantile non dissimile da quello del film di Todd Haynes, Wonderstruck. Ma i bimbi del suo nuovo lavoro (in gran parte non attori, come il resto del cast) ricordano piuttosto i Little rascalas di Hal Roach, monelli impuniti in una serie di corti, realizzati tra gli anni ’20 e i ’40, in piena Grande depressione.

Profughi della depressione economica e del disastro dei subprime (raccontati con precisione chirurgica in 99 Homes di Ramin Bahrani, in questa zona) sono anche i protagonisti di The Florida Project, una tribù di bambini capitanati da Moonee (Brooklynn Kimberly Prince) –a sei anni una forza della natura che semina il terrore nel Magic Castle Motel, un parallelepipedo di cemento viola, strangolato tra un paio di autostrade, con camere anguste come loculi con kitchenette, dove ogni tanto capitano sposini in viaggio di nozze che si sono fatti fregare su internet dal nome che ammicca a Disney. Essenzialmente una topaia, dove la macchina per il ghiaccio è sempre rotta nonostante gli sforzi del manager (Willem Dafoe, in un’interpretazione sfumatissima e geniale), il Magic Castle costa ai suoi occupanti 35 dollari a notte. Ma anche quella cifra è difficile da sostenere per la mamma di Moonee, tappezzata di tatuaggi, decorata a forza di piercing e bambina come sua figlia, che la accompagna a vendere creme rubate davanti al golf club locale.

Usando con abilità un cast reclutato in gran parte via instagram, Baker adotta il punto di vista dei bambini per dare una dimensione avventuroso fantastica allo squallore – ma poi squarcia quel sogno con drammatici istanti di pericolo – un incendio appiccato per errore, gli sconosciuti che iniziano a visitare la madre di Moonee, gli assistenti sociali, un vecchio lubrico…-per coglierne la precarietà, il dolore e la drammatica ingiustizia. Un’ingiustizia che potrà solo peggiorare grazie al nuovo progetto di bilancio presentato ieri da Donald Trump. Una dichiarazione d’intenti così darwiniamente crudele che il presidente Usa –ancora in Medio Oriente- non ha nemmeno avuto il coraggio di metterci la faccia.