Bertrand Bonello occupa un posto particolare nel panorama del cinema francese. La sua filmografia è fatta i film misteriosi, costruiti come castelli separati dal mondo; e al tempo stesso portatori di un dialogo serrato con il presente. I suoi eroi – le prostitute dell’Apollonide (2011), lo stilista di Saint Laurent (2014), non meno dei giovani decabristi di Nocturama (2016) o lo schiavo di Zombie child (2019) – appartengono tutti ad epoche passate o trapassate. Al tempo stesso, ci sono sempre in qualche modo contemporanei.

A riflettere questo contrappunto c’è la musica, che spesso apre un passaggio tra tempi diversi. Più in generale, non è difficile reperire in Bonello le tracce di un cineasta compositore. Non solo perché oggettivamente è l’autore delle proprie musiche originali. Ma perché, nella genesi dei suoi film, la scrittura della sceneggiatura e quella delle musiche coincidono e si influenzano reciprocamente. Ogni suo film è in qualche modo una composizione unica.

Anche quando questi raccontano una storia o perfino una biografia, le sue sequenze funzionano come dei brani musicali e il film tutto intero è concepito come una sorta di album.

Coma è decisamente un album sperimentale. Politico e personale, è un film pieno di invenzioni, di idee, di libertà. Girato nell’anno del lockdown, è anche un invito ad essere liberi. Mentre molti aspettavano di tornare a fare quello che facevano prima, Bertrand Bonello ha deciso di reinventare il proprio mestiere. Lo abbiamo incontrato alla Berlinale, dove il film, selezionato in Encounters, ha ottenuto il premio Fipresci della critica.

Come presentare «Coma» a chi non lo ha visto?
Ci sono decine di modi diversi di farlo. Il più semplice consiste nel dire: attraverso una lettera a mia figlia, cerco di entrare nei sogni e negli incubi di una ragazza di oggi.

È così che lo hai concepito?
Tutto è cominciato con un corto. Durante il lockdown, la fondazione Prada mi ha proposto di fare un film utilizzando solo immagini d’archivio. Ne ho confezionato uno con delle immagini mie, in particolare prese da Nocturama. Quando ho visto che la pandemia si prolungava sul 2021, ho deciso di spingere l’esercizio un po’ più in là e di fare un lungometraggio. Sempre in cerca di «found footage» sono capitato su una conferenza su Vincente Minnelli in cui Gilles Deleuze argomenta un imperativo: «mai entrare nel sogno di un altro, anche se si tratta di una seducente giovinetta ». L’idea di Coma è precisamente quella di sfidare quella massima, entrare nel sogno di una ragazza e farsi contaminare da esso. Ho pensato allora ad una ragazza sdraiata sul letto ad ammazzare il tempo. Come se il letto fosse una zattera alla deriva. Il suo rapporto al mondo passa unicamente attraverso la sua immaginazione o attraverso internet.

L’impressione è quella di un film concepito come un artefatto.
È in effetti un puro prodotto artigianale. Mi è molto piaciuta la sensazione di manipolare il film come un oggetto, e di potergli dare la forma che volevo. Questa libertà impone una disciplina. Più si è liberi, più si è costretti a strutturare il lavoro, altrimenti si finisce per fare una grande insalata. Ho lavorato molto per costruirlo nei minimi dettagli, cercando di trovare un ritmo perfetto tra i diversi elementi. È un film che ho scritto con dei post-it disponendoli come un mosaico.

Utilizzi una serie di formati molto diversi.
Sulla ragazza siamo in 1.33. Appena si passa nella sua testa, e soprattutto sul suo computer, siamo in 1.77, che è il formato dello schermo del suo portatile. Il prologo e l’epilogo in CinemaScope. Una volta ammessa l’idea di fare un film ibrido, bisogna spingersi più in là possibile.

La videoconferenza è un vero Zoom?
Abbiamo provato diverse soluzioni per quella scena, e alla fine la soluzione esteticamente migliore è stata quella di registrare lo schermo direttamente dal programma. Ovviamente la sequenza è sceneggiata. Non c’è improvvisazione. Però le diverse amiche che chattano si trovavano ognuna a casa propria, connesse via internet. C’è una sola macchina da presa, che filma la protagonista. La scena alterna tra questa inquadratura e lo schermo. E poi c’è Patricia Coma che vede la conferenza proiettata su uno schermo al cinema. Fa parte di quei momenti in cui i sogni cominciano a contaminarsi l’uno con l’altro.

Da dove viene l’idea della foresta?
All’inizio, c’è una semplice intuizione formale. Ho una vecchissima videocamera DV, di quelle con le cassette, e ho da sempre l’idea di usarla per fare delle inquadrature soggettive in una foresta. Mi piace l’idea del 4/3, della soggettiva totale che deambula. Mi piace questa forma. Mi sono detto che questo era il film giusto per usarla. Mi sono chiesto solo dopo cosa avrebbe potuto raccontare. Nel film la foresta è la porta che separa la vita dalla morte. È il posto dove puoi incontrare i morti. Ed è il solo luogo dove si è veramente liberi. Da lì è venuta poi l’idea di questo giocattolo di plastica, il rivelatore.

È un oggetto che esiste o lo hai fatto fabbricare?
È un giocattolo che si trova per 4 o 5 euro su internet.

Lo avete programmato perché la ragazza potesse ripetere la sequenza? Oppure contante sul fatto che lo spettatore non memorizza la sequenza?
Né l’uno né l’altro. Con l’assistente annotavamo la serie dei colori che poi dettavamo a Louise. Quando la serie diventava abbastanza lunga, provavamo un ciak. Più facile a dirsi che a farsi.
La colonna sonora, sia quella originale che non, è sempre una parte integrante della tua maniera di pensare il film. In questo caso forse anche più del solito…
Ho scritto 40 minuti di colonna sonora originale su un film che ne fa in tutto 80. Ho composto le musiche del prologo, dell’epilogo, delle barbie… Ogni parte del film l’ho immaginata insieme ad una musica. Con una sola eccezione: le scene con la ragazza sul letto non hanno colonna sonora originale – c’è solo la musica che ascolta lei.

Tra le cose che la protagonista ascolta stesa sul letto, c’è un autore italiano che si sente raramente sul grande schermo: Andrea Laszlo de Simone.
Lo trovo magnifico. Le sue canzoni sono singolarmente radicate nella canzone popolare italiana, al tempo stesso c’è in lui qualcosa di assolutamente innovativo e moderno. Mi sembrava che fosse una musica che potesse far entrare il pubblico nei sogni della protagonista.

C’è sempre stata nei tuoi film l’idea di microcosmi e di utopie… Di mondi separati dal mondo che siamo soliti chiamare reale. Quello che è cambiato, e con cui il tuo cinema si confronta è che il mondo intorno a noi si « bonellizza»
Le mutazioni che stiamo vivendo, le fratture che si aprono sempre di più, economiche, ecologiche, politiche, ovviamente mi spaventano. Ma al tempo stesso le trovo appassionanti. Certo, stiamo perdendo delle cose alle quali siamo legati. Al tempo stesso il passato non ha realtà, solo quello che muta è vivo. È anche il mio rapporto con il cinema. Quello che mi interessa è quello che si fa, quello che non conosco. Spesso mi chiedono: quali sono i grandi registi che la influenzano? Conosco il passato del cinema. Lo amo. Ma non mi appassiona. A me interessa quello che fa un ragazzo cinese di ventidue anni. Il messaggio di questa mia lettera a mia figlia è: non c’è il mondo di prima e quello di domani. Ci sei tu nel mondo. C’è il tuo mondo. Ed è questo che mi interessa.