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L’Africa e i poliziotti dei paesi suoi

L’Africa e i poliziotti dei paesi suoiUn fermo di polizia durante le proteste anti-governative a Conakry, nella Repubblica di Guinea – Ap

Abusi strutturali La richiesta di tutti gli stati del continente di aprire il dibattito all'Onu sulle «brutalità della polizia contro persone di origine africana» potrebbe avere una doppia lettura

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 14 giugno 2020

Non è un caso che la Giornata internazionale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali si celebri in una data segnata da un massacro di polizia. Il 21 marzo 1960 a Sharpeville erano agenti razzisti per statuto, quelli che uccisero 69 dimostranti inermi e ne ferirono 180.

Sollecitati dalla circostanza storica o – più probabile – ansiosi di occupare posti d’onore nell’inginocchiatoio globale, oggi ci sono tutti e 54 i paesi del continente africano dietro alla richiesta avanzata al Consiglio dell’Onu perché si discuta con «urgenza» il tema delle «violazioni dei diritti umani ispirate dal razzismo» e della «brutalità della polizia contro persone di origine africana».

Come se le violazioni dei diritti umani ispirate da altro – politica, affari, uomini “forti” al potere, divisioni etniche: la scelta qui è purtroppo ampia – non meritassero azioni altrettanto urgenti; e le moltitudini giornalmente brutalizzate da polizie e para-polizie – in Guinea, Camerun, Etiopia, Marocco… e pure nel Sudafrica post-Mandela – non fossero di origine altrettanto africana.

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