Scritto nel 1969, durante la detenzione di José Revueltas nel carcere messicano di Lecumberri, il racconto titolato Le scimmie si può oggi leggere finalmente in italiano (a cura di Alessandra Riccio, Sur, pp. 59, euro 7,00) ) confermandosi per il capolavoro che è e motivando il posto di assoluto rilievo che l’autore messicano occupa tanto nella storia letteraria latinoamericana quanto in quella del movimento operaio.

Nato nel 1914 nello stato di Durango, cresciuto in una famiglia di artisti (un compositore, un pittore e un’attrice, tra i suoi fratelli), Revueltas fu un militante comunista sin da giovanissimo e un letterato autodidatta. «Ribelle e luciferino» lo defini il filosofo messicano Leopoldo Zea, accostandolo allo scrittore che Revueltas più amava, Dostoevskij.

La sua vita è in effetti un appassionato succedersi di ribellioni e polemiche, riflessioni teoriche e abiure. Revueltas, nomen omen, è prototipo di un homme révolté insofferente nei confronti di ogni acquiescenza, ogni luogo comune del pensiero, ogni ingiustizia. I suoi due romanzi più importanti, El luto humano (del 1943) e Los días terrenales (del 1949), cercano nella forma del realismo critico una via alternativa alle semplificazioni del realismo socialista e del cosiddetto romanzo della rivoluzione messicana.

Ambientati negli anni trenta, tra rivolte agrarie e tensioni sociali che pervadono ogni aspetto della quotidianità, i due romanzi esplorano la complessità psicologica dei protagonisti senza nascondere contraddizioni e lati oscuri. Il libro del 1943 gli valse il Premio Nacional de Literatura; quello del 1949, la condanna da parte del partito comunista messicano (e di molti colleghi, tra cui Pablo Neruda), che lo accusò di «esistenzialismo».

Fu in un suo romanzo successivo, Los errores, che Revueltas avrebbe esplicitato, attraverso le parole di uno dei personaggi, il dilemma cruciale della sua traiettoria politica: «su di noi, i comunisti autentici – membri o meno del partito – peserà il terribile, il soverchiante compito di collocare la storia dinanzi al bivio di decidere se quest’epoca, questo secolo pieno di perplessità, sarà definito come il secolo dei processi di Mosca o il secolo della rivoluzione d’ottobre». Sebbene la storiografia sia ricorsa a formule assai diverse per definire il XX secolo, è la coscienza di questo bivio, sempre presente in José Revueltas, a fare da bussola nelle sue scelte intellettuali.

Nella travagliata storia della sinistra messicana – passando attraverso il trotskismo, l’elaborazione dello spartachismo, i diversi movimenti e gruppi politici a cui si avvicinò e da cui più volte si ritrovò a essere espulso – Revueltas si fece notare per il suo coraggio e per la sua integrità, finendo per diventare un punto di riferimento morale e ideologico per il movimento studentesco del ’68. Un mese dopo il massacro di Tlatelolco, nel novembre del 1968 la furia repressiva della presidenza Díaz Ordaz lo condusse nel carcere di Lecumberri; in quella prigione concepì e ambientò la sua opera più visionaria: El apando (letteralmente, la cella di isolamento), in apparenza un testo meno politico dei precedenti, ma senza dubbio, come sottolinea Elena Poniatowska nel saggio incluso come postfazione del volume edito da Sur, il suo testo più «universale». Nonostante «scimmie» sia senz’altro la parola chiave del testo, lascia qualche dubbio la decisione di presentare l’opera affidandosi a questo che è l’appellativo con cui, sin dalla prima riga, i tre reclusi protagonisti del racconto si riferiscono alle guardie carcerarie. La disumanizzazione, però, coinvolge sia gli uni che gli altri, le figure tetre dei secondini come quelle brutali di Albino, Polonio e il Coglione, i tre compagni di cella intorno ai quali si impernia il racconto: serrato e claustrofobico, non lascia respiro distendendosi per quaranta pagine senza mai andare a capo.

Un racconto allucinato: i tre protagonisti sono tossicodipendenti, e il disperato tentativo di farsi recapitare la droga anche in cella d’isolamento costituisce l’episodio centrale del testo, determinando un crescendo rabbioso che conduce all’inevitabile deflagrazione finale.

Revueltas non espone una tesi, non si propone di stabilire chi siano le vittime e chi i carnefici, lasciando al lettore il compito di constatare la perdita di senso di ogni distinzione, tra prigionieri e sorveglianti, buoni e cattivi, liberi e reclusi. Nel carcere descritto da Revueltas, nei pensieri e nelle ossessive fantasie dei tre detenuti nessun sentimento, neppure il pianto, è in grado di nobilitare o riscattare le ferite di una condizione umana imprigionata. Anzi, le sottolinea, ne approfondisce le cicatrici: «Le lacrime grosse e lente scivolavano lungo la guancia in corrispondenza della vecchia rasoiata che andava dal sopracciglio al mento, invece di una linea verticale seguivano il corso della cicatrice e gocciolavano dalla punta del mento, lontane dagli occhi, lontane da qualsiasi pianto umano».

Autore assolutamente necessario anche, ma certo non soltanto, in virtù della sua scomodità, Revueltas raggiunge il culmine della propria espressione letteraria non solo grazie a una scrittura meticolosa e acuminata, ma anche, e soprattutto, per un gesto che è insieme letterario e politico: guardare negli occhi ciò da cui si è soliti distogliere lo sguardo, proprio parlando dal carcere, e provocandoci a una lettura che inevitabilmente chiama in causa anche il nostro qui e ora.