La violenza sessuale maschile ha nuovamente «fatto notizia». Quattro giovani, di cui tre minorenni, figli di immigrati, arrestati per due stupri a Rimini: vittime una turista polacca e una transessuale peruviana. Due carabinieri accusati da due studentesse americane di averle violentate. Non ultimo il tragico epilogo toccato alla sedicenne Noemi Durini. Sono seguite discussioni, tra vari eccessi e fake-news in rete, con interrogativi sulle possibili «gerarchie» di gravità della violenza e sulle sue radici.

QUANTO GIOCA la cultura di appartenenza per lo straniero che aggredisce di notte una sconosciuta? E quanto conta indossare l’uniforme che dovrebbe garantire la massima sicurezza per chi invece si trasforma nel peggiore pericolo? «Uno stupro è uno stupro, è uno stupro», hanno detto alcune femministe (Sara Gandini, ndr): chi violenta è prima di tutto un maschio. Altre contestano questa visione: conta anche l’identità e la provenienza di chi agisce la violenza, e non vanno rimosse le reazioni di paura che si allargano nei nostri quartieri.

LE VOCI MASCHILI dovrebbero riconoscere tutta la gravità e complessità della violenza quotidianamente agita da noi uomini: una realtà purtroppo da sempre strutturale e non «emergenziale», che avviene al 90 per cento tra le mura domestiche, o da parte di amici e conoscenti delle vittime. Indagandone gli aspetti di una diffusa cultura del possesso – con le diverse declinazioni familiari, religiose, nostrane e straniere – e affrontando le dinamiche personali che connotano ogni singolo caso di femminicidio, stupro, molestie, stalking. Per capire come reagire, che cosa fare per cambiare le cose, partendo da se stessi e intervenendo nei propri contesti.
Qualcosa si muove in questa direzione, e non da oggi. Va riletto un testo, pubblicato nel 2013 da Ediesse e CRS (Centro per la riforma dello Stato), ora giunto alla terza edizione ampliata: Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento (pp. 528, euro 22), a cura di Alessandra Bozzoli, Maria Merelli, Maria Grazia Ruggerini, Stefania Pizzonia, dell’associazione di studiose «Le Nove».

È LA PRIMA SERIA ricerca sulle esperienze di intervento nei confronti di maschi che agiscono violenza nel nostro paese, accompagnata da testimonianze di donne e di uomini che lavorano su questo difficile terreno, relativamente nuovo in Italia. La ricerca fornisce anche un quadro delle maggiori e più consolidate esperienze in altri paesi, soprattutto in Europa e nel mondo anglosassone.
Nella nuova edizione si trova un aggiornamento della ricerca sui centri rivolti agli uomini, che prosegue un lavoro iniziato nel 2011. Non molti anni, ma sufficienti per cogliere alcune linee di tendenza. Aumenta la consapevolezza, anche nelle istituzioni, che l’attenzione – oltre che in primo luogo verso le donne che vogliono liberarsi dalla violenza subita, grazie all’azione dei Centri Antiviolenza – va rivolta anche a chi la violenza la esercita. Per limitare recidive e per prevenire le aggressioni, fisiche e psicologiche.

I CENTRI che, con metodologie, realtà organizzative e approcci diversi, operano con questi fini sono aumentati da una quindicina a una quarantina (33 hanno risposto al questionario della ricerca). Sono di più nel Nord del paese, gestiti al 63% dal «privato sociale» e al 20% da istituzioni pubbliche, finanziati ancora molto precariamente e in poca parte da canali pubblici.
Significativo è che vi operino in maggioranza donne (60% rispetto al 40% di maschi), pur essendo state promosse da uomini alcune esperienze importanti (dal Cerchio degli uomini di Torino a Livorno Uomini Insieme – LUI , a Nuovo maschile di Pisa, e altre ancora). Anche nell’affrontare faccia a faccia la violenza dei maschi si dimostra più tenace la disposizione femminile alla cura?

QUELLO DELLA VIOLENZA resta il terreno più arduo di uno scambio libero dai retaggi patriarcali tra uomini e donne. Forse è quello decisivo, ed è proprio qui che sono aperte tra le più intense esperienze di collaborazione, certo non senza conflitti (con realtà associative miste, per esempio Relive, che raggruppa vari centri, come iCAM – Centri Ascolto Maltrattanti).
Il «piano antiviolenza» in via di definizione in queste settimane da parte del governo, dovrebbe investire più attenzione in questa direzione. Senza che ciò si traduca in una anche minima sottrazione di risorse – già insufficienti – all’attività dei Centri Antiviolenza e delle Case rifugio che accolgono le donne e spesso i loro figli.