Faceva freddo ieri notte a San Ferdinando. La tramontava sferzava il cielo e i 6 gradi di temperatura parevano molti di meno. Moussa Ba, Aldo Diallo e gli altri braccianti che dimoravano nel primo cumulo di baracche e roulotte, quelle a ridosso della strada, cercavano di scaldarsi in qualche modo. A mezzanotte, d’improvviso, un fuoco si è levato e propagato in pochi minuti. Moussa, che era tornato nella sua roulotte, è stato colto nel sonno. Per lui non c’è stato scampo.

LE FIAMME sono divampate in una baracca a quindici metri da lui e si sono rapidamente estese a causa del materiale usato per costruire i tuguri: legno, plastica e cartoni. A nulla son valsi i tentativi di spegnere l’incendio in attesa dei pompieri. E così la trappola mortale di questo campo di vergogna ha fatto l’ennesima vittima. La processione delle salme, in questo lembo dannato di Calabria, può continuare. Dopo Becky, Suruwa, Dominic, Marcus, il nuovo martire di questo scempio di Stato è un senegalese di 28 anni. In Italia dal 2015 aveva il permesso scaduto per mancata presentazione della documentazione. In tutti questi anni lo Stato non ha mai voluto smantellare questa vergogna. Ha preferito sbianchettare lo scempio, sostituendo le tende con i container ma senza offrire un tetto e una casa dignitosa ai lavoratori. Invece sono proprio il concentramento di povertà e la ghettizzazione a creare l’apartheid. L’unica soluzione, su cui da anni puntano attivisti, urbanisti, sindacalisti, sarebbe l’inserimento abitativo diffuso: case sfitte e beni confiscati per migranti e autoctoni, sono quasi 40 mila solo nella Piana. Giusto 15 giorni fa è nato il Comitato per il riutilizzo della case vuote della Piana di Gioia Tauro. Ne fanno parte Mimmo Lucano e padre Alex Zanotelli. La logica e il buon senso vorrebbero che per superare la baraccopoli dovrebbe innestarsi un processo virtuoso di accoglienza diffusa. E invece dalla Prefettura e dal Viminale, i veri responsabili di questo sfacelo, giungono ben altri segnali: deportazione e schedature.

Il prefetto di Reggio, Michele di Bari, ieri ha annunciato, su input del ministro Salvini, il rapido sgombero della favela e il trasferimento dei braccianti «che lo vorranno» negli Sprar e nei Cas della provincia. Non prima di aver richiamato il pugno di ferro salviniano, con la formuletta magica «previe le necessarie verifiche di legge». Che tradotto dal gelido linguaggio questurino significa: chi è in regola sarà rinchiuso in un altro recinto di Stato, meno precario, ma chi non lo è finirà dritto in infernali gironi poliziesco-giudiziari. Salvini, nel suo stile, ha rincarato la dose scaricando senza pudore le colpe della tragedia sui migranti: «Illegalità e degrado provocano tragedie come questa. Per gli extracomunitari di San Ferdinando con protezione internazionale avevamo messo a disposizione 133 posti negli Sprar. Hanno aderito solo in otto, tutti del Mali. E anche gli altri, che pure potevano accedere ai Cara o ai Cas, hanno preferito rimanere nella baraccopoli. Basta abusi».

 

LE REAZIONI all’intemerata del ministro non sono mancate. L’Usb dice no a strumentalizzazioni «che prendano a pretesto la morte di Moussa per usare il pugno di ferro contro i braccianti scaricando la responsabilità della tragedia sulle vittime» e presidia con i propri delegati il campo «per evitare qualsiasi colpo di mano autoritario». La Cgil, che ieri pomeriggio ha organizzato una fiaccolata, denuncia «l’ennesima tragedia che ha precise responsabilità politiche e istituzionali». «Occorre applicare la legge 190 – ha detto Giovanni Mininni, della segreteria nazionale della Flai – che prevede tra l’altro oltre alla lotta al caporalato anche la convocazione del tavolo speciale sull’agricoltura».

Anche l’Anpi punta il dito contro le istituzioni: il coordinatore calabrese, Mario Vallone, rimarca che «da queste parti il fuoco anziché attenuare il freddo invernale ti toglie la vita. Lasciano di stucco le dichiarazioni ‘costernate’ della politica e delle istituzioni. Farebbero meglio a tacere dichiarando il proprio fallimento a comprendere e risolvere il dramma di questo pezzo di umanità».

E DA CAULONIA, dal suo esilio coatto, ha fatto sentire la sua voce Lucano: «Sto molto soffrendo perché questi ragazzi sono qui per trovare lavoro e invece trovano la morte. Noi avevamo cercato in tutti i modi di spiegare che si devono trovare soluzioni superando la baraccopoli e puntando sulle case abbandonate, invece in alcune riunioni ho avuto la sensazione che non si volesse creare un contatto con le comunità e si volesse invece continuare a ghettizzare. Salvini si accorge della situazione quando muoiono le persone. Ma non ha umani