Mancavano quattro giorni alla presentazione della denuncia contro Lula per il caso dell’appartamento di tre piani a Guarujá, il famoso triplex, e il coordinatore della task force della Lava Jato a Curitiba, Deltan Dallagnol, era macerato dai dubbi sulla solidità dell’impianto accusatorio contro l’ex presidente. E non su aspetti marginali, ma proprio sul punto centrale: sul fatto cioè che Lula avesse ricevuto l’appartamento in cambio di favori all’impresa di costruzione Oas relativamente ad alcuni contratti con la Petrobras.

«Diranno che lo stiamo accusando in base alla notizia di un giornale e a deboli indizi, scriveva ai colleghi: «Sono preoccupato per il collegamento tra Petrobras e arricchimento e (…) per la storia dell’immobile».

C’È QUESTO E MOLTO ALTRO nei tre esplosivi reportage pubblicati domenica dal sito The Intercept a proposito della reale natura dell’operazione Lava Jato – spesso e impropriamente paragonata a Mani Pulite – e dei suoi protagonisti, a cominciare da Dallagnol e dall’ex giudice di prima istanza a Curitiba Sérgio Moro, oggi degno ministro del governo Bolsonaro.

E oltretutto i tre servizi, fanno sapere da Intercept, sarebbero solo l’inizio di una inchiesta giornalistica più ampia, basata su un’enorme quantità di materiali inviati da una fonte anonima – messaggi privati, audio, video, foto, documenti giudiziari -, riguardo non solo alla Lava Jato ma a «esponenti dell’oligarchia, dirigenti politici, gli ultimi presidenti e persino leader internazionali accusati di corruzione».

Ma già con quanto è stato pubblicato domenica tutto ciò che le forze democratiche hanno denunciato fino a perdere la voce trova inoppugnabili conferme: la supercelebrata Lava Jato non è stata altro che un’operazione politica e ideologica diretta a escludere Lula dalla competizione elettorale che avrebbe di sicuro vinto, aprendo così la strada al governo autoritario dell’attuale presidente.

Come dimostra Intercept, i pm della Lava Jato, in pubblico sempre molto decisi a definirsi imparziali e apolitici, esprimevano apertamente il desiderio di scongiurare la vittoria del Pt, concordando misure per raggiungere l’obiettivo. Fino al punto di tramare segretamente per impedire a Lula (come poi puntualmente verificatosi) di rilasciare un’intervista prima delle presidenziali per paura che avvantaggiasse Haddad.

E SE, AL MOMENTO dello scambio dei messaggi riportati il 20 settembre del 2018, sembrava che il «Piano A», quello di ribaltare la decisione giudiziaria, avesse «possibilità zero», il pm Januário Paludo suggeriva di limitare perlomeno l’impatto dell’intervista, trasformandola in una conferenza stampa aperta a tutti i giornalisti. Mentre Athayde Ribeiro Costa e Julio Noronha invitavano a premere affinché l’intervista fosse fatta dopo le elezioni: «In tal modo – scriveva Ribeiro Costa – sarebbe possibile evitarla senza disattendere il mandato giudiziario».

Nel frattempo, Dallagnol conversava con un’amica e confidente identificata su Telegram come «Carol PGR» a proposito dell’importanza della preghiera: «Sono molto preoccupata – scriveva l’amica – di un possibile ritorno del Pt, ma ho pregato molto perché Dio illumini la nostra popolazione».

MA I REPORTAGE SI SPINGONO anche oltre, mostrando come Sérgio Moro, nel momento stesso in cui offriva di sé l’immagine di imparziale e integerrimo arbitro della partita, collaborasse segretamente con la task force della Lava Jato per allestire l’impianto accusatorio contro Lula. I messaggi tra il magistrato e il coordinatore della task force inviati dalla fonte anonima abbracciano un periodo di due anni (dal 2015 al 2017), durante il quale Moro suggerisce cambiamenti nelle fasi delle operazioni («Forse sarebbe il caso di invertire l’ordine delle due programmate»), indica fonti e offre piste di indagine («la deputada Mara Gabrili mi ha mandato il testo qui sotto, date un’occhiata. È riservato»). A volte persino muovendo rimproveri a Dallagnol, neanche fosse il suo superiore gerarchico.

Addirittura, l’8 maggio 2017, due giorni prima che Lula deponesse per la prima volta dinanzi a Moro, il magistrato, dinanzi alla possibilità che l’interrogatorio fosse rimandato, invia un irritatissimo messaggio a Dallagnol: «Che storia è questa che volete rinviare? State scherzando?». Il giorno stesso la richiesta della difesa viene respinta.

E tutto questo avviene malgrado i timori interni al pool sull’assenza di un collegamento tra il triplex e gli atti di corruzione relativi alla Petrobras, senza il quale il caso non avrebbe potuto essere giudicato a Curitiba dall’affidabilissimo Moro. Tant’è che, ancora alla vigilia della presentazione della denuncia, Dallagnol commentava: «L’opinione pubblica è decisiva e questo è un caso costruito con prova indiretta e la parola di collaboratori contro un’icona passata indenne per il mensalão» (il primo scandalo esploso sotto il governo Lula).

IL GIORNO DOPO, il 14 settembre 2016, in una sala riunioni di un hotel di lusso a Curitiba, Dallagnol avrebbe presentato la denuncia illustrando il caso con un power point su cui si sarebbero riversate ondate di scherno. E pronunciato la sua memorabile frase: «Non abbiamo prove, ma abbiamo convinzioni».