Il 9-10 dicembre il Presidente Biden ospiterà il «Summit per la Democrazia» che riunirà, in collegamento mondiale online, «leader di governo, società civile e settore privato».

La lista degli invitati comprende 111 paesi. Tra questi 28 dei 30 membri della Nato: mancano Turchia e Ungheria ma, in compenso, ci sono Israele e Ucraina, insieme a 26 dei 27 membri della Ue salvo l’Ungheria. Per intenderci: c’è la Polonia sotto tiro della Ue perché viola lo stato di diritto.

Il Summit «fornirà loro una piattaforma per difendere la democrazia e i diritti umani all’interno e all’estero, per affrontare attraverso una azione collettiva le più grandi minacce che hanno di fronte oggi le democrazie».

Verrà in tal modo avviato «un anno di azione per rendere le democrazie più reattive e resilienti», che culminerà con un secondo Summit in presenza per «costruire una comunità di partner impegnati nel rinnovamento democratico globale».

Joe Biden mantiene così quanto annunciato nel programma elettorale (il manifesto, 10 novembre 2020): un Summit globale delle «nazioni del mondo libero», anzitutto per «contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari della Nato e imponendo alla Russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali» e, allo stesso tempo, per «costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della Cina». In tal modo gli Stati uniti ritorneranno a «svolgere il ruolo di guida nello scrivere le regole». «La difesa dei valori democratici – ha ribadito Joe Biden in veste di presidente – è impressa nel nostro Dna come nazione».

Che cosa sia impresso nel DNA degli Stati uniti lo dimostrano le circa cento guerre di conquista che hanno caratterizzato la loro storia.

Secondo un documentato studio di James Lucas (il manifesto, 20 novembre 2018), soloi la serie di guerre e colpi di stato – effettuata dagli Stati uniti dal 1945 ad oggi in oltre 30 paesi asiatici, africani, europei e latino-americani – ha provocato 20-30 milioni di morti, centinaia di milioni di feriti (molti dei quali restati invalidi), più un numero inquantificato di morti, probabilmente centinaia di milioni, provocati dagli effetti indiretti delle guerre: carestie, epidemie, migrazioni forzate, schiavismo e sfruttamento, danni ambientali, sottrazione di risorse ai bisogni vitali per coprire le spese militari.

Nelle guerre più sanguinose – Corea, Vietnam e Iraq – le forze militari Usa furono direttamente responsabili di 10-15 milioni di morti.

Il colpo di stato più sanguinoso fu organizzato nel 1965 in Indonesia dalla Cia: essa fornì agli squadroni della morte indonesiani la lista dei primi 5 mila comunisti e altri da uccidere. Il numero dei trucidati viene stimato tra mezzo milione e 3 milioni.

Lo stesso Joe Biden, promotore del «Summit per la Democrazia», ha avuto un ruolo da protagonista in parte di questa storia.

Nel 2001, in veste di presidente della Commissione Esteri del Senato, sostenne la decisione del presidente Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan che autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq.

Nel 2007, fece passare al Senato un piano di smembramento dell’Iraq in tre regioni – curda, sunnita e sciita – funzionale alla strategia Usa.

Nel 2009-2017, in veste di vicepresidente dell’amministrazione Obama, ha compartecipato alla pianificazione ed esecuzione della guerre contro Libia e Siria e del putsch di fatto in Ucraina, in cui Biden ha svolto un ruolo diretto e determinante.

Riguardo alla democrazia interna, basti ricordare che, secondo le statistiche ufficiali, la polizia uccide ogni anno negli Usa circa 1.000 inermi cittadini, soprattutto neri e ispanici. Basti ricordare che gli Stati uniti vogliono condannare a 175 anni di carcere il giornalista Julian Assange che ha portato alla luce i loro crimini di guerra.

Probabilmente tra qualche giorno la magistratura britannica deciderà sulla sua estradizione negli Usa. Intanto, il 6 dicembre, la Gran Bretagna ha co-ospitato un evento preparatorio del Summit, intitolato «Difendere le democrazie dalla disinformazione», focalizzato sulle «migliori pratiche per promuovere un sistema informativo aperto e trasparente».