Negli ultimi anni l’opera di Fabio Mauri sta conoscendo un crescente successo internazionale: basti ricordare la sala dedicatagli a Kassel per dOCUMENTA 13 (2012), la grande mostra di Buenos Aires (Fundación Proa 2014), la prima importante retrospettiva newyorkese, appena conclusa, presso la prestigiosa Hauser&Wirth, e infine la scelta di Okwui Enwezor di riservargli un’intera sala del Padiglione centrale nella Biennale di Venezia appena inaugurata.
Dobbiamo rallegrarcene? Certamente: sono in molti, infatti, a ripetere che Mauri sia uno dei soli quattro artisti italiani che il supercuratore global-nigeriano ha scelto per la sua Biennale. Ma come valutare questa scelta? Non è soddisfacente la risposta che ha dato Renato Barilli quando scrive che Enwezor, con Mauri, è andato sull’«usato sicuro». E interessano assai poco la personalità e la psicologia di Enwezor, su cui alcuni hanno opinioni poco lusinghiere (secondo Robert Storr, sarebbe un «corporate raider» opportunista. Storr potrà anche aver ragione, ma come lui stesso dovrebbe sapere, avendone diretta una – giudicata spietatamente a suo tempo proprio da Enwezor su Artforum (2007, 46, I) – curare una Biennale in maniera sensata è quasi impossibile).

Sarebbe più interessante capire che ruolo hanno le opere di Fabio Mauri all’interno dell’esposizione. L’impressione, o la speranza, è che se il visitatore della Biennale meditasse un po’ sulle sue opere potrebbe arrivare a farsi un’opinione più lucida e articolata non solo del mondo in cui viviamo, ma della Biennale stessa, nel bene e nel male.

Oltre la mondanità
Anche prima della sua morte (2009), Mauri è stato un artista apprezzato, sempre circondato e sostenuto da molti di quelli che – in un tempo vicino ma che sembra lontanissimo – erano gli «intellettuali che contano», benché molto diversi tra loro (tanto per fare due nomi, che potrebbero incarnare due poli antropologico-culturali sideralmente distanti: Pasolini e Eco). Era un uomo elegante, con molte conoscenze, appartenente a una delle grandi famiglie dell’editoria italiana. Verrebbe da dire: un «uomo di (un) mondo (scomparso)». Ma era un artista dotato di una consapevolezza a tratti candida e dolente della stupidità della storia.
Interrogato dalla sua amica e gran dama della critica d’arte Lea Vergine nel 1985 sulla mondanità, aveva risposto di conoscerla bene: «È gustosa ma non sopporta il valore, è come un motoscafo a pelo d’acqua, non sopporta chiglia, profondità. Tutto deve essere istantaneo, ma come se eterno. Il valore può entrare nella mondanità solo se non dà turbamento, e purché non crei problemi Il mercato si occupa mondanamente, e per fini modesti, di qualcosa che invece è l’enigma della sperimentazione e della vita di un artista». Queste e altre parole di Mauri vengono in mente pensando all’uso che ha fatto delle sue opere Enwezor.

Ma veniamo alla sala a lui dedicata ospitata nel Padiglione centrale: dominano il Muro occidentale o del pianto – che torna alla Biennale, per la quale era stato realizzato nel 1993, con qualche modifica. È un’opera molto nota: un muro di diverse valige di cuoio alto quattro metri, percorso da un’edera rampicante. Le valige sono tutte chiuse, eccetto una, al cui interno compare una fotografia della prima performer di Ebrea (Paola Montenero), scattata da Elisabetta Catalano. È il Muro del Pianto, ma è anche l’emblema di tutti i muri e di tutte le necessità e le impossibilità di varcarli, migrando, così come gli ebrei sono per Mauri tutti gli esclusi, gli scartati, i calpestati del mondo – ebrei e non ebrei (come per il suo amico Pasolini: «E cerco alleanze che non hanno altra ragione/d’essere Gli Ebrei…I Negri… ogni umanità bandita…. [La realtà] ).

A parte la grande fotografia di Mauri e Pasolini (scattata durante le prove della performance Che cos’è il fascismo), che l’artista aveva messo in terra, coperta di cellophane, durante la performance del 2005 in cui recitava la poesia La Guinea dell’amico assassinato («Alle volte è dentro di noi qualcosa / (che tu sai bene, perché è la poesia) / qualcosa di buio in cui si fa luminosa qualcosa / la vita…»), a dominare sono grandi variazioni sul tema più noto di Mauri, quello della Fine, The End (dagli schermi ai collage alla grande Macchina per fissare acquerelli).
Una «fine», così giocosamente simile alla scritta in coda a film e cartoni animati, e così dolorosamente chiamata ad attestare «la fine» di ogni esperienza del mondo non già selezionata, predigerita, canalizzata, manipolata dai regimi totalitari, prima (fascismo e nazismo, come si sa, sono i grandi traumi che Mauri è costretto a ripetere e indagare continuamente nelle sue opere) e dall’invasione della televisione e dei grandi mezzi di comunicazione di massa, poi.

Percorsi bulimici
Dagli anni ’90 – lo notava già allora Carolyn Christov-Bakargiev – Mauri sposta la sua attenzione dal tema degli schermi (luoghi di proiezioni e predeterminazioni ideologiche, essendo l’ideologia la grande merce di consumo europea) a quello dell’ingombro, del sovraccarico di dati e informazioni. Oggi le parole d’ordine di ogni comunicato stampa di mostre d’arte sono «interattivo e immersivo», come se fossero, se non una promessa di felicità, almeno una promessa di non annoiare il potenziale visitatore, che potrà sempre interagire-giocare, essere stupito da effetti speciali e immerso in un mondo virtuale, senza sosta né il pericolo di dover attivare la propria immaginazione e il proprio intelletto (sotto sotto, ma nemmeno troppo, c’è l’attrazione mostruosa del «parco a tema» per grandi e piccini, dove l’immaginazione è dispensata dal suo lavoro, è fornita «just in time», precotta e pronto all’uso).
Mauri lo aveva già capito nelle sue installazioni dei primi anni ’90 (Interno/Esterno, 1990, Studenti, 1992), dove metteva in opera l’impossibilità di dedicare un’attenzione prolungata nel tempo, e già mostrava come la promessa «interazione» è predeterminata in anticipo, e «l’ingombro opprime e si avverte la perdita di senso dell’orientamento» (Christov-Bakargiev).
Lo stesso ingombro e perdita di orientamento che il visitatore della Biennale di Enwezor sperimenta inevitabilmente sulla propria pelle, a meno che non dedichi la propria vita (o almeno i prossimi sei mesi) al tentativo di decifrarla, con il rischio di ritrovarsi, in ultimo, con un pugno di mosche: oltre alle migliaia di opere esposte, ci sarebbero da vedere e rivedere ottantatré film di Harun Farocki e quelli di Chris Marker, da ascoltare (e capire) la lettura dell’intero Capitale di Marx, da leggere le sceneggiature di Straub e Huillet, da decifrare i Polls di Hans Haacke… Non una critica dell’ingombro troviamo in questa Biennale, e nemmeno una sua problematica e rivelante «messa in opera», ma una sorta di «acting out» bulimico, incapace di simbolizzare, ma solo di agire e ripetere, quel che pure dichiara di voler portare criticamente al centro della scena.

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«Tutti i futuri del mondo» (titolo dato da Enwezor alla sua Biennale) rischia di diventare così un ammasso di frammenti del mondo presente, troppi fino allo stordimento (e sempre troppo pochi, se devono essere davvero «tutti»), dove il mondo finisce per essere riassorbito in quella mondanità di cui parlava Mauri – senza condanne ascetiche («è gustosa», diceva), ma anche nella consapevolezza della sua fatuità («non sopporta il valore, è come un motoscafo a pelo d’acqua»).
Una piccola mostra a latere nell’accogliente «Serra dei Giardini» con il titolo Flags (curata da Elena Florin) ha come pezzo «forte» un’altra opera di Mauri, La resa (2002), una semplice bandiera bianca issata su un palo sostenuto da tubi Innocenti. Mauri scriveva di quest’opera: «È la resa del giudizio. Del mio almeno. Mi allaga l’incapacità di capire. E la Storia, cui ho sempre dedicato attenzione come tracciato indicativo di un significato comune all’uomo, ombre comprese, in fine stritola la coscienza in un cappio di stupore e ribrezzo. È stupida. Questa mia è una resa formale. Una bandiera bianca. Una certa misura di resa può scoprire forse alternative inedite di pace».

Mentre sulle possibili «alternative di pace» sarebbe meglio non sbilanciarsi troppo, sembra invece che Mauri – anche in questa piccola mostra postuma – abbia colto un punto nevralgico delle nostre società: una dialettica bloccata tra controllo e perdita di controllo. Ogni «organismo» (individuale o sociale) ha bisogno di tenere uniti, solidali, cooperanti, questi due aspetti della vita organizzata. Ma oggi, è evidente, le cose non stanno più così, a tutti i livelli: a un controllo capillare di tutte le forme di vita (sorveglianza, automonitoraggi indotti, valutazioni ossessive di ogni «prestazione», rintracciabilità incessante, fine della privacy…) si affianca, senza integrarsi, tutto un insieme di fenomeni «fuori controllo» (dipendenze di ogni genere, bulimie di tutto, attacchi di panico, disorientamento, non-padroneggiamento della vita individuale e collettiva – dalla quotidianità di ciascuno alla politica, all’economia, alla finanza).

Un’altra prospettiva
Mauri, con la sua Resa, poneva il problema, e lo faceva con quell’attività, l’attività artistica, che – forse unica rimasta – implica, per la sua stessa riuscita, una cooperazione tra controllo (tecnico-intellettuale-operativo) e abbandono (l’emergere, in qualsiasi opera riuscita, di aspetti non intenzionati dall’artista). Non a caso, un’operina messa a fianco di quella di Mauri (Early One Morning di David Rickard: sei giavellotti conficcati in terra, scagliati dalla sommità dell’edificio da un lanciatore professionista) mirerebbero a suggerire un nuovo senso di controllo rispetto alla «resa formale» di Mauri. Una sottolineatura di un aspetto che il suo semplice lavoro già contiene.
Forse, se Enwezor avesse meditato un po’ più a lungo su questo artista che ha deciso di esporre, la Biennale sarebbe stata diversa: avrebbe magari optato, invece che per «tutti i futuri del mondo», per un’ ipotesi meno bulimica e più modesta (e dunque più ambiziosa), per proporla a un pubblico reale, mettendolo in condizione di elaborarla.