Una «censura gigantesca». Così la stampa indipendente turca definisce il blocco di Twitter, Facebook e Youtube e le minacce a Google provenienti dalla procura di Istanbul. La magistratura ha imposto a 170 siti di togliere la foto del procuratore Mehmet Selim Kiraz, rapito dal gruppo armato marxista-leninista Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo (Dhkp-C). Il procuratore e i sequestratori sono stati uccisi dall’intervento delle squadre speciali. Prima di morire, i militanti del Dhkp-C avevano spiegato il loro gesto in un comunicato: chiedere giustizia per la morte di Berkin Elvan, il ragazzo ucciso durante le proteste di Gezi Park e su cui il procuratore indagava. La rivendicazione si concludeva con una frase sull’«amore verso il popolo», e subito sulle reti sociali, accanto all’immagine del sequestro si erano moltiplicate le scritte: «anche noi vi amiamo». Nei giorni seguenti, c’erano state altre azioni armate e dimostrative, finite con l’uccisione di un’altra giovane militante. Come di consueto, il regime islamista-conservatore di Recep Erdogan ha reagito con una dura repressione, che ha portato in carcere attivisti, sindacalisti e avvocati.

Le tre reti sociali si sono piegate al diktat, hanno ritirato le immagini e hanno ripreso a funzionare dopo alcume ore. Durante il sequestro, l’organismo di controllo dell’audiovisivo ha proibito a tutte le televisioni del paese di trasmettere in diretta le immagini dell’evento. Uno dei principali gruppi editoriali del paese, Dogan, che pubblica anche Hurriyet e Posta è stato costretto a pubblicare scuse ufficiali sui siti internet e sulle pagine dei giornali, chiedendo venia per «il cattivo uso di una foto raffigurante i simboli di una organizzazione terrorista». Secondo Cumhuriyet, la Turchia di Erdogan ha imposto «il maggiore black-out delle reti sociali» mai avvenuto nel paese. Per Birgun, in vista delle cruciali elezioni politiche del 7 giugno, il paese si sta avviando verso «il caos e la censura» in una «democrazia dimezzata: una «gigantesca censura», titola Yurt, mentre Taraf rileva che Erdogan ha mantenuto la promessa di «stroncare twitter». Sette quotidiani turchi, critici con il governo islamico, che avevano pubblicato la foto del pm sono stati incriminati per supposta «propaganda per un gruppo terroristico». Che il blitz delle forze speciali abbia provocato anche la morte del pm, è un’ipotesi avanzata da più parti. I risultati dell’autopsia non sono stati resi pubblici. Il capo dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu ha chiesto vengano comunicati al paese.

La Turchia di Erdogan è chiamata in causa per aver agevolato il corso dell’Isis. Diverse organizzazioni per i diritti umani lo denunciano dal 2013. Giovedì scorso, il ministro degli Esteri tunisino, Taieb Baccouche ha indetto una conferenza stampa per chiedere alle autorità di Ankara di impedire il passaggio sul loro territorio dei giovani tunisini che vanno ad accrescere le fila del Califfato in Siria «o che ritornano dalla Turchia, verso la Libia e poi clandestinamente verso la Tunisia». Non è però contro i tagliagole che Ankara ritiene di dover reagire con pugno di ferro. Ben più pericolose appaiono al governo Erdogan quelle sinistre, divise o diffuse, che potrebbero catalizzare altrimenti lo scontento sociale: da quelle che hanno manifestato a Gezi Park, a quelle che occupano le fabbriche come la Kazova, ai gruppi marxisti messi fuorilegge, e che hanno pagato con centinaia di morti lo sciopero della fame durato sette anni. Il governo offre 3 milioni di dollari a chiunque fornisca informazioni sui ricercati. Una messa al bando che serve per montare operazioni poliziesche con l’Europa come quella che, a Mestre, ha portato in carcere un cittadino turco in vacanza con la famiglia. E intanto l’Isis avanza.