Si fa un grande parlare delle vittime dei grandi percorsi storici, ossia di quanti hanno pagato a essi un tributo che, molto spesso, è stato quello della propria vita. Con uno sgradevole neologismo, si potrebbe dire che la «vittimologia», dagli anni Ottanta in poi, ha occupato una parte importante delle riflessioni portate avanti dalle scienze sociali e da quelle storiche. Come capita un po’ per ogni stagione culturale, destinata come tale a riflettersi da subito sui diversi livelli di attenzione e, quindi, di analisi critica prevalenti, anche in questo caso si sono registrati aspetti positivi e limiti di sostanza. Gli elementi di interesse sono costituti dall’attenzione che si è andata manifestando verso quei gruppi sociali, e quindi quelle persone che, travolte da eventi soverchianti, ne sono risultati annientati. Un’indagine sui traumi che da ciò derivano, a partire dai sopravvissuti, così come dal vuoto che l’assenza delle vittime ingenera nelle collettività di cui erano parte, non può più essere esclusa dall’orizzonte analitico dello studioso.

NON DI MENO, ciò rivendica la necessità di dotarsi di una strumentazione appropriata, per non lasciarsi indurre nella duplice tentazione di relativizzare, così come di enfatizzare acriticamente, il ruolo e la funzione delle politiche pubbliche di persecuzione e distruzione laddove esse si siano storicamente verificate.
I limiti di un tale approccio sono altrimenti evidenti dal momento stesso che la lettura del passato, a partire dal Novecento, rischia di essere schiacciata all’interno di una sorta di dispositivo assolutizzante, dove la vittimofilia, ossia la passione e la pietà per le morti «ingiuste», sembra sommergere, come una perenne onda in piena, la pluralità di percorsi, processi e fenomeni che portarono alla distruzione delle vite così come anche al rifiuto politico, laddove esso si manifestò, che ciò continuasse a succedere. Il rischio che la figura totalizzante della vittima oscuri quella dell’oppresso – e con essa la carica oppositiva di chi, invece, a tali derive ha opposto non solo la sua personale resistenza ma una più generale volontà di liberazione, attraverso un percorso alternativo di tutela dei diritti umani – è un paradosso che si innesca nella lettura dei processi storici quand’essa viene schiacciata sull’esclusiva narrazione del passato come una sorta di pantheon del terrore. In altre parole ancora, l’ipertrofia dell’immagine della vittima può produrre una sorta di eterogenesi dei risultati, incentivando un determinismo storico basata sull’ineluttabilità delle tragedie.
L’indignazione che ne deriva, non è in sé un antidoto se a ciò non si accompagna un investimento nell’azione politica. Poiché se il panorama esclusivo è quello di una successione di rovine, l’immagine che viene trasmessa è quella dell’impotenza associata al dolore insensato. L’agire politico richiede invece dei significati condivisi, che superino la soglia della mera valutazione morale, in sé paralizzante, per trasformarsi semmai in motore di opposizione. Si tratta infatti di un effetto perverso della comunicazione sociale: partendo dalla premessa che la conoscenza di una tragedia costituisca da sé un tassello fondamentale della pedagogia pubblica, la lettura della storia come un succedersi di catastrofi ne comprime quello che invece è anche e soprattutto un tempo dove l’idea di emancipazione prende corpo e assume sostanza, creando quindi coesione collettiva.

NELLE NOSTRE SOCIETÀ ciò avviene tanto più nel momento in cui il calendario civile, quello che la politica definisce come percorso di significati rispetto alle memorie collettive, è giocato per buona parte sulla commemorazione dei lutti del passato. La matrice originaria di questa pratica risiede nel trattamento al quale furono sottoposti i caduti della Grande guerra, istituzionalizzati da quasi subito dentro un pantheon che ne trasformava il ricordo in una sorta di epica anestetizzante, una devitalizzazione degli aspetti più traumatici degli echi della loro esperienza per il tramite di liturgie pubbliche ispirate alle retoriche del «sacrificio» se non del «martirio».
Un tale modo di procedere, infatti, nel momento stesso in cui celebra l’altrui scomparsa, ponendola in funzione della condivisione di una qualche idea del presente, il più delle volte ne decontestualizza il significato politico. Ovvero, ne cancella le circostanze che condussero a tali esiti. Si inscrive in questo indirizzo critico il volume di Richard Rechtman, Le vite ordinarie dei carnefici (Einaudi, pp. 172, euro 19,50). Benché non intenda fornire al lettore un testo onnicomprensivo sul Novecento delle carneficine (altri lo hanno già fatto, con risultati alterni e a volte per nulla convincenti), tuttavia indaga sulle modalità con le quali è necessario porsi dinanzi all’eredità degli omicidi di massa motivati da una qualche ragione di Stato.
L’autore, antropologo e psichiatra, direttore di ricerca presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, ha lavorato a più riprese su una vicenda poco o nulla studiata in Italia, con l’eccezione di Matilde Gallari Galli (con il suo volume su Pedagogia del totalitarismo, di oramai venticinque anni fa), ossia sul genocidio cambogiano. Il fuoco delle riflessioni di Rechtman, infatti, è basato sui riscontri, i reperti e le testimonianze di quella terrificante mattanza che, tra il 1975 e il 1979, disarticolò la società khmer, distruggendo circa un terzo della sua popolazione.

PIÙ CHE UN LIBRO sulla specificità di quell’evento, e sulla sua storia, si ha tuttavia a che fare con un testo che, partendo dalla contemporaneità di quei fatti, si muove verso la definizione di categorie interpretative che possano fungere anche nella comprensione di altre tragedie collettive. Tra di esse, ad esempio, quelle che hanno attraversato il Kurdistan iracheno nell’ultimo decenni, con la presenza criminale dell’Isis. L’articolazione in cinque capitoli (cronache di carnefici, godimento e crudeltà del mostro, l’uomo ordinario e le sue patologie, amministrare la morte e l’ordinarietà del genocida) risponde quindi all’esigenza di fornire al lettore alcune chiavi di interpretazione applicabili anche in contesti tra di loro differenti. Va ribadito che la metodologia d’approccio adottata parte dalla soggettività degli individui presi in considerazione, nelle loro peculiari biografie, per poi arrivare a una sintesi più generale. Tralasciando certe semplificazioni di intuizioni altrimenti feconde (come l’Hannah Arendt della «banalità del male»), l’autore cerca di ricostruire faticosamente una trama delle identità dei carnefici.

NON SI TRATTA DI DISEGNARE delle maschere o dei costumi facilmente intercambiabili, né di definire idealtipi negativi. Piuttosto, attenuando il convincimento ancora diffuso per cui sarebbe solo ed esclusivamente una qualche ideologia a fare la differenza tra il crimine e il suo rifiuto, per Rechtman fondamentale è invece l’insieme delle relazioni sociali che inducono più individui a commettere gesti estremi, creando una sorta di solidarietà e di reciprocità tra carnefici. Il vero fuoco dell’indagine, quindi, non sono i costrutti morali e neanche le trame politiche bensì il tessuto socioculturale che genera l’accettabilità delle catastrofi, in quanto esito plausibile dei grandi rivolgimenti, nel passato così come nel presente.
Lo scavo, pertanto, è quello antropologico, cercando di sondare il rapporto tra le soggettività criminali, il substrato mentale che rende accettabile l’agire omicida, i dispositivi culturali diffusi e condivisi nonché le condizioni oggettive, ovvero quei contesti storici nei quali qualsiasi idea di palingenesi, o di riforma delle collettività, passa attraverso la pratica dell’eliminazione fisica, biologica, civile di una parte di esse. L’autore non offre letture e interpretazioni del tutto inedite. Il solco che segue è, semmai, quello affermatosi da almeno una ventina d’anni, dell’etnoantropologia, adottando questa ampio spettro disciplinare come strumento per guardare e indagare all’interno dell’incoscienza del carnefice