Tra le diverse scritte murali che per me meglio sintetizzano il Sessantotto, mi piace ricordare «una risata vi seppellirà». Una frase in cui si rispecchia il vitalismo, la forza dell’Utopia, la coscienza antagonista che ha dato origine alla contestazione sessantottina in un clima di totalizzante politicizzazione.

La coscienza di dire al Re che è nudo, continua ancor oggi a sembrarmi un emblema fedele di quella spontaneità inoppugnabile che recuperava alla collettività quanto era negato al singolo, esigeva anche con la violenza l’immaginazione al potere, tenendo sempre al più alto livello lo scontro con la logica conservatrice della cultura egemone e del potere politico dominante.

Quella risata iconoclasta e dirompente che ritroviamo a caratterizzare il personaggio di Ale nei Pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio e nel nanetto dell’herzoghiano Auch Zwerge haben klein angefangen (Anche i nani hanno cominciato da piccoli, 1969).

Ufficialmente un vero e proprio «cinema del Sessantotto» nel campo della fiction non è mai esistito in quanto tale, in Italia ma persino neanche in Francia, a conferma che spesso la Storia scorre e sfugge sgaiattolando tra un fotogramma e l’altro, e che un movimento radicale non si lascia ingabbiare, descrivere, ridurre, ma forse soltanto vivere.

In pochi mesi, da un crogiolo di inquietudini generazionali e di riflessioni politiche, che il cinema italiano aveva anticipato, con grande lucidità, in un pugno di film profetici, definiti «della crisi» – da Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci a I pugni in tasca di Bellocchio, per arrivare a Uccellacci e Uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini e Sovversivi (1967) dei Fratelli Taviani – si è propagata una straordinaria tensione comune. Che, per altro, ha dato luogo a delle esperienze «militanti» nel documentario e nel cinema d’artista con dei risultati di non poco conto.

Di fatto però tra l’ambiente del «cinema» e il movimento studentesco ci sono stati quasi solo contatti strumentali, qualche fugace esplorazione l’uno dell’altro per lasciare delle tracce in alcuni film sul o con Sessantotto (quelli di Maselli, Petri, il «cinema d’impegno civile», ecc.), oppure che da quella esperienza hanno tratto linfa vitale come, ad esempio, Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri.

Anche ad esaminare le categorie usate da Luc Moullet in un vecchio ma sempre utile saggio (vedi nota in calce, nda), la questione non diventa molto più chiara.

Il cineasta e critico francese ha provato così a sintetizzare i punti salienti di «that magic moment»:

il superamento, la tabula rasa delle idee e delle forme del passato, con la conseguente rinuncia alla narrazione e alla rappresentazione proprie del cinema commerciale;

la predilezione per le strutture circolari, le ripetizioni, il minimalismo della vita rappresentata sullo schermo;

l’unità di luogo e gli ambienti chiusi, la rappresentazione di piccoli gruppi isolati;

la pratica del «cinema nel cinema», con il disvelamento del meccanismo della fiction;

le nuove strade del documentario e del cinema militante, caratterizzate da riprese veloci e ininterrotte;

l’utopia secondo cui tutti possano fare del cinema, per esempio creando case di produzione autonome e indipendenti.

A ben vedere, però, tutto ciò è il punto di partenza, lo sviluppo e il culmine di un processo molto lungo che nasce con il Nuovo cinema in Francia e in Inghilterra a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta.

Piani sequenza interminabili, interpellazione diretta allo spettatore, sguardo in macchina, jump-cut, nuovi corpi, nuove tecniche e professionalità, «cinema nel cinema» formano i tanti tasselli stilistici di quella sistematica distruzione del tessuto narrativo tradizionale condotta dalla generazione di Rouch, Godard e Resnais, Bellocchio e Bertolucci, Kluge e Reitz, Anderson e Loch, e poi di tantissimi altri, ed applicata a tanti temi nuovi (ad esempio il nesso psichiatria-potere) o all’attualità politico-ideologica.

Tale crogiolo, dalla sua iniziale gestazione, confluisce e potenzia, in modo del tutto naturale, quella «rivoluzione dell’immaginario» esploso negli Anni della Rivolta.

Se è vera questa nostra assai banale constatazione, si può giungere a una provvisoria conclusione: seguendo una ricerca comune durata nel cinema (e non solo) più di un decennio e in tutto il mondo, è esistito, sulla base di parole d’ordine comuni nei loro utopici fini rivoluzionari, uno «spirito» (ammesso che lo si possa definire tale) tanto fervidamente innovativo quanto sfuggente.

Insomma esistono tanti Sessantotto quante sono le esperienze personali ed artistiche che lo hanno attraversato, il Sessantotto sembra perciò destinato a restare di necessità ciò che era in principio: un’ipotesi aperta, una rivolta in forma di domanda, un’analisi senza possibilità di sintesi anche e soprattutto nell’arte e specificatamente nel cinema.

Questa mi pare, se non una definitiva interpretazione storica, per lo meno un’ipotesi di lavoro da valutare.

nota L’esprit de Mai in Viennale (a cura di), That Magic Moment. 1968 und das Kino, Vienna International Film Festival, Wien 1998, pagg. 7-17.