Al dodicesimo giorno di protesta – che in Ecuador (e non solo) chiamano paro nacional – tutto sembra crescere di intensità: la partecipazione, la repressione, la rabbia, i morti. Sentendosi con le spalle al muro, il presidente Lasso continua a invocare il dialogo, ma intanto fa ricorso alla violenza, allontanando così la potente Confederazione delle nazionalità indigene (Conaie) dal tavolo dei negoziati. Tanto più che, dopo un anno di infruttuosi colloqui con il governo, i popoli indigeni non vogliono più sentire parole: esigono fatti.
È di tutto questo che abbiamo parlato con l’artista, antropologa culturale e attivista per i diritti umani Yumac Ortiz, presidente del «Coordinamento per la pace, la sovranità, l’integrazione e la non interferenza» (Cepaz), instancabile nel denunciare alla comunità internazionale le ripetute violazioni dei diritti umani da parte del governo Lasso.
Come si è arrivati a questa nuova protesta?
Già in due occasioni, durante l’anno, la Conaie e il governo si erano seduti al tavolo dei negoziati. Ma il presidente Lasso si è sempre rifiutato di offrire soluzioni reali a questioni come l’accesso alla salute, all’educazione e a un lavoro degno, misure di sostegno ai contadini, il rispetto dei diritti umani. Ma il popolo ecuadoriano non ce la fa più, stremato da una crisi economica che si è aggravata con la pandemia. E ulteriormente impoverito dalle politiche neoliberiste applicate dal governo Lasso in perfetta continuità con il nefasto governo di Lenin Moreno e in totale allineamento agli interessi degli Stati uniti, a scapito della sovranità del nostro paese. È per questo che la Conaie, sostenuta da un ampio ventaglio di organizzazioni, si è decisa a convocare il 13 giugno il paro nacional, rivendicando il diritto alla protesta riconosciuto dalla stessa Costituzione.
E qual è stata la risposta del governo?
Come e forse anche di più che sotto la precedente amministrazione, la risposta del governo è stata la criminalizzazione, la persecuzione e la repressione brutale dei manifestanti.
Di fronte allo stato di insicurezza in cui vive la popolazione, al dilagare del narcotraffico e della criminalità – in Ecuador le persone vengono uccise più dai sicari che dalle malattie -, i cittadini si chiedono: perché la strategia di persecuzione applicata ai manifestanti non viene impiegata contro il crimine organizzato?
La comunità internazionale deve saperlo: le marce e le manifestazioni realizzate finora sono state in massima parte pacifiche. Gli indigeni non sono delinquenti e non vogliono il caos. A provocare la violenza è lo stato, sono gli infiltrati che commettono atti vandalici, sono le forze di polizia che respingono i manifestanti con le presunte armi non letali, sparando contro la gente proiettili di gomma e bombe lacrimogene.
Quali sono le condizioni per l’avvio di un dialogo autentico?
Il governo porta avanti un doppio discorso. Da una parte afferma e ribadisce la propria disponibilità a dialogare, offendo anche alcune soluzioni demagogiche come l’aumento del bonus contro la povertà; dall’altra decreta lo stato d’emergenza e ricorre alla repressione e alla persecuzione, come indica anche il caso dell’arresto illegale del presidente della Conaie Leonidas Iza, il quale, benché sia stato rilasciato, deve ora affrontare un processo per i reati di «ribellione» e «interruzione di pubblico servizio». Il governo parla di dialogo ma intanto mette popolo contro popolo, cercando di far leva sul razzismo diffuso nell’immaginario collettivo contro gli indigeni. Benché Quito stia rispondendo con un’enorme solidarietà nei confronti dei manifestanti.
Di certo, senza i popoli indigeni non ci può essere né rivoluzione, né trasformazione. È stato grazie alla loro combattività che si sono ottenuti i cambiamenti in questo paese. E ora gli indigeni sono disposti a negoziare con il governo, ma a condizione che cessi la repressione e che venga data risposta alle dieci richieste da loro avanzate, che riflettono le necessità dell’intera popolazione ecuadoriana.
Cosa ha significato l’occupazione da parte delle forze di polizia della Casa della Cultura?
È stata la peggiore mossa possibile da parte del governo, in quanto non ha fatto che esacerbare ancor di più gli animi e accrescere l’indignazione della popolazione. Una misura che può applicare solo un regime dittatoriale. La Casa della cultura è il principale spazio della memoria, della storia, dell’identità del popolo ecuadoriano, custodendo i tesori del patrimonio tanto materiale quanto immateriale del nostro paese. E le forze di polizia lo hanno trasformato in una caserma. Come Cepaz, insieme al presidente della Casa della Cultura Fernando Cerón, abbiamo presentato una denuncia all’Unesco affinché vengano adottate tutte le misure pertinenti per la difesa di questo prezioso patrimonio.