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«In Brasile la repressione è forte, ma noi restiamo fermi»

«In Brasile la repressione è forte,  ma noi restiamo fermi»

Intervista Francisco Dal Chiavon, uno dei fondatori del Movimento Sem Terra

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 26 maggio 2017

«Contro la mobilitazione che cresce, Temer manda l’esercito. È la prima volta che succede dalla fine della dittatura». Così dice al manifesto Francisco Dal Chiavon, storico dirigente brasiliano del Movimento Sem Terra. Francisco è in Italia per un giro di conferenze: domenica sarà alla Città dell’Altra economia (ore 10, Largo Dino Frisullo), martedì al Centro sociale Spartaco (alle 18, via Selinunte 57).

Il suo percorso ha accompagnato quello del movimento Sem Terra, di cui è stato uno dei fondatori, nel 1984. Qual è il bilancio oggi?
In quegli anni c’era un grande problema sociale, in Brasile. Si era nell’ultimo periodo della dittatura militare, che è durata dal 1964 all’85. Molte famiglie come la mia – sono uno dei 15 figli di un piccolo contadino – non avevano di che vivere. Il movimento si è messo in moto nel 1983 cominciando a organizzare le comunità, con l’appoggio della chiesa cattolica, di quella evangelica luterana e dei sindacati.

Nell’85 abbiamo tenuto il primo congresso, a Paranà, con una particolarità: ci siamo fondati come organizzazione autonoma da sindacati e partiti e con questo spirito abbiamo cominciato a organizzare i contadini. Io ho fatto parte della direzione nazionale fino al ’95. Da allora, il mio compito è quello di organizzare le cooperative e gli accampamenti, nel coordinamento nazionale del movimento. Il 25 maggio dell’85 abbiamo realizzato la prima occupazione a Santa Caterina. In una settimana abbiamo occupato due aree improduttive del latifondo con 12.000 famiglie. Il governo ha sottoscritto un accordo secondo il quale avrebbe sistemato le famiglie in 90 giorni, ma lo ha disatteso. Abbiamo però ottenuto un risultato importante: essere riconosciuti come movimento organizzato. Quello della riforma agraria è un problema antico.

C’è differenza tra distribuzione della terra e riforma agraria.

In che senso?
Riteniamo che la riforma agraria debba essere composta da cinque punti fondamentali: terra, credito, assistenza tecnica e prezzo. Dal 1960 a oggi, i governi hanno distribuito la terra a 1.200.000 famiglie: 25.000 durante il regime militare, circa 600.000 durante i governi Lula e 100.000 con Dilma.

Con le nostre lotte, 350.000 famiglie hanno conquistato la terra, mentre 150.000 stanno lottando negli accampamenti. Sul piano della lotta e su quello dell’organizzazione dei contadini, il bilancio è in attivo. Lavoriamo per costruire comunità, sulla formazione l’economia, affinché le cooperative possano vendere la loro produzione e attrezzarsi a livello industriale.

L’Mst ha sostenuto ma anche criticato i governi di Lula e di Dilma Rousseff.
In base a una legge approvata durante i governi del Pt, il 30% dell’alimentazione deve provenire dall’agricoltura famigliare. Così abbiamo potuto vendere direttamente al governo, senza dover competere con le grandi imprese capitaliste, e di questo siamo grati.

Ma tutte le infrastrutture statali sono in funzione dei programmi del grande latifondo e dell’agro-business. L’agricoltura, nel mondo e non solo in Brasile, è egemonizzata dalle grandi multinazionali. I governi del Pt non sono riusciti a rompere questa egemonia perché avrebbero dovuto lottare a fondo e non si è trattato di governi rivoluzionari.

Si è persa una grande opportunità e ora predomina l’agrobusiness. Per come sono andate le cose, la riforma agraria è passata in secondo piano perché si è puntato sullo sviluppo industriale per creare pieno impiego. E la gente ha abbandonato le campagne: per veder crescere il mais occorrono 130 giorni, mentre un lavoro lo si poteva trovare in un mese. Ora, con la crisi, le cose sono cambiate: il lavoro manca, la disoccupazione è al 13% e la gente vuole tornare alla campagna. Il problema della riforma agraria dev’essere però risolto insieme alla classe operaia, nella lotta al modello capitalista. Abbiamo capito che possiamo vincere solo unendoci a vari movimenti che hanno obiettivi e problemi comuni. Lo sciopero del 28 aprile è stato il risultato di questa grande articolazione tra movimenti, sindacati, chiese di base che hanno a cuore il destino della sinistra e della giustizia sociale: 180.000 persone in piazza per chiedere le dimissioni di Temer e le elezioni dirette.

E quali scenari si aprono?
La mobilitazione cresce. Temer è solo uno strumento nelle mani delle grandi multinazionali, coperto dai tribunali e dalle classi medio-alte. La borghesia brasiliana non ha mai avuto un progetto autonomo, è sempre stata guidata dall’esterno.

La popolarità di Temer è al 3% e ora sta perdendo l’appoggio. In Brasile, la soluzione alle crisi è sempre venuta dall’alto.

Questa volta, però, vogliamo avere la parola: chiediamo elezioni dirette per costruire la vera democrazia. Le destre devono ancora costruire un candidato. Il giudice Moro diceva che Lula è un corrotto e risulta che Temer è il corrotto. E risponde mandando l’esercito a sparare sulla folla. Non succedeva così dalla dittatura. Ci sono molti feriti. E nel comune di Pau d’Arco sono stati ammazzati 10 contadini, fra i quali la presidente della loro associazione. Ma l’Osa non interviene, Almagro preferisce colpire il Venezuela.

Le forze conservatrici cercano di azzerare le conquiste sociali. Tutta la nostra solidarietà al popolo venezuelano e a Maduro. La proposta dell’Assemblea Costituente è un fatto importante per far avanzare il processo di democratizzazione del Venezuela e l’integrazione regionale.

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