Svolta politica importante, in Mali: dopo le dimissioni del premier Oumar Tatam Ly in carica da pochi mesi, è il trentanovenne Moussa Mara – ex sindaco di una delle circoscrizioni di Bamako, campione della lotta alla corruzione e famoso per il suo dinamismo – ad assumere la guida del nuovo governo che si è insediato lo scorso 11 aprile. Si apre così una fase inedita, rispetto agli eventi di un paio di anni fa, quando la regione dell’Azawad è sconvolta da velleità indipendentiste-jihadiste e nella capitale ha successo il golpe del capitano Amadou Haya Sanogo contro Amadou Toumani Touré, presidente indebolito e al vertice di un sistema sì democratico, ma inadeguato a gestire il conflitto coi ribelli tuareg del nord. I gruppi armati sono, inizialmente, controllati dal Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), che poi sceglierà di allearsi (con sorti alterne) alle milizie islamiste del Mujao, Ansar Eddine e Aqmi.

Solo l’operazione «Serval», predisposta dalla Francia nel gennaio 2013, su richiesta del presidente ad interim Diacounda Traoré, tampona un quadro passibile di condurre il Mali alla spaccatura. Nell’intento di ritrovare un’esistenza politica normale, già nell’agosto, sono indette le elezioni per il capo di stato, che vedono la vittoria d’Ibrahim Boubacar Keïta, figura gradita a Parigi e appoggiata dai leader religiosi. A tale consultazione, segue il rinnovo del Parlamento.

Ma, nel 2014, la crisi è davvero dietro le spalle? Nelle città del centro-sud non vi è segno di tensione e la presenza dell’esercito sulle arterie extra-urbane è vistosa. La vita ha ripreso il suo corso: l’economia tenta di ripartire, confidando nei fondi promessi dalla Ue; mille riforme sono in campo; Sanogo viene arrestato con l’accusa di omicidio (malgrado la promozione a generale); una commissione «verità-giustizia-riconciliazione» è nata a marzo… Eppure, le ferite restano aperte, e le province del nord (Gao, Timbuctu, Kidal) conoscono una pace precaria, con le forze del Mnla onnipresenti.

L’esigenza dei maliani d’immaginare il futuro su nuove basi è palpabile, al punto che persino una manifestazione dedicata alla letteratura, come la Rentrée littéraire (25-28 febbraio), ha posto al suo centro il tema «diversità e convivenza». Come ha spiegato il ministro della Cultura Bruno Maïga, la Rentrée si è qualificata quale spazio che ha permesso agli intellettuali di confrontare le loro esperienze a contatto con il pubblico. Nei dibattiti si è messo l’accento sulla pluralità delle voci nel paese, in una prospettiva di uguaglianza, libertà e autonomia, interrogandosi sul ruolo della laicità nella lotta alle discriminazioni e nel promuovere l’integrazione fra le componenti socio-culturali esistenti. Precise questioni sono emerse quali nodi irriducibili: la crisi maliana è stata un fattore di regolazione sociale, un indicatore di resistenza al cambiamento o il sintomo dello sprofondare di un’intera collettività? Che giustizia permetterà di ritessere i legami sociali? Quale governance, fra decentramento amministrativo e federalismo, favorirà la ripresa?

Espressa in maniera chiara, una preoccupazione accomuna oggi gli intellettuali: come reagire all’invadenza socio-politica dall’islam, rispetto a un apparato statale privo di energie, in un paese multietnico e formalmente laico (come attesta la Costituzione del 1992), ma in cui il 90% della popolazione è di fede islamica?

Sebbene le istanze jihadiste siano state isolate, la religione si è affermata, nella prassi quotidiana, come fonte di legittimità per il potere. Per altro, di recente, il ministro all’Urbanistica, personaggio di peso, ha sostenuto che solo le organizzazioni musulmane sono in grado di mobilitare le masse. I partiti non riescono a coinvolgere i cittadini. In caso di necessità questi ultimi non si rivolgono alle istituzioni pubbliche, ma sanno che l’unico possibile soccorso può venire dalle organizzazioni confessionali, impegnate in ambito umanitario. Il fenomeno è talmente riconosciuto che, ormai, gli stessi esponenti politici cercano di assicurarsi il sostegno del mondo religioso, in primis dell’Haut Conseil Islamique du Mali, ma pure quello di notabili come gli shaykh delle maggiori confraternite o i grandi marabouts, dai quali si lasciano consigliare e accompagnare per accrescere il proprio prestigio.

L’importanza degli skaykh e dei marabouts non si connette, comunque, in maniera esclusiva alla loro abilità nelle prediche, fatte in moschea o trasmesse via radio, tv, cd e cassette, ma va attribuita alle facoltà mistiche e magico-religiose di cui sarebbero detentori alcuni di loro. Insomma, il potere politico diviene in qualche misura succube di un rapporto con l’invisibile e le forze che lo dominano, che nessuno o quasi, mette in dubbio. Un celebre detto riflette tale realtà con sarcasmo: il Mali è un paese al 90% musulmano, al 10% cristiano e al 100% animista…