La realtà nascosta tra le crepe
Cannes 71 «La strada dei Samouni» di Stefano Savona, alla Quinzaine la vita di una comunità familiare a Gaza. Un presente da inventare, dopo uno dei più violenti massacri compiuti da Israele con l’operazione Piombo fuso
Cannes 71 «La strada dei Samouni» di Stefano Savona, alla Quinzaine la vita di una comunità familiare a Gaza. Un presente da inventare, dopo uno dei più violenti massacri compiuti da Israele con l’operazione Piombo fuso
La bambina è minuta, ha mani sottilissime, quando sorride gli occhi rimangono tristi; sussurra quasi tormentando la fascia luccicante sui capelli che lei le storie non le sa raccontare. La macchina da presa aspetta discreta. Leggera la piccola si muove nello spazio intorno, vuoto. Lì dice c’era il sicomoro, era molto grande, mio padre e i miei fratelli sedevano sotto le sue fronde nel riposo dal lavoro nei campi. Lì ancora c’era l’orto che mio fratello Ahmed curava. E poi? Poi c’era la moschea, c’erano le case, e soprattutto c’era la vita di una ragazzina, di una grande famiglia, di un quartiere con le sue storie di ogni giorno. Cosa succede a chi resta dopo la battaglia?
La strada dei Samouni comincia così, un inizio folgorante in cui la «memoria» si affida all’evocazione della parola, si fa racconto orale per colmare quanto non vediamo, non possiamo più vedere, i morti, il paesaggio ferito, la rabbia, il dolore. E sul confine di uno spazio che non c’è,o che non c’è ancora, il passato cancellato e un presente da inventare, Stefano Savona costruisce la narrazione del suo nuovo film presentato ieri alla Quinzaine, la vita di una comunità familiare di contadini, i Samouni del titolo, da sempre abitanti pacifici della periferia rurale di Gaza prima e dopo l’«Operazione Piombo fuso», l’ennesimo, e tra i più violenti massacri compiuti da Israele che con il pretesto di colpire i terroristi di Hamas ha sterminato famiglie, sparato su ambulanze, ospedali, scuole, moschee dimenticando, come sempre, qualsiasi rispetto dei diritti umani, o forse più semplicemente dell’umanità. Savona negli stessi giorni del 2009 gira Piombo fuso per rompere censura e embargo imposti dal governo israeliano. È allora che incontra i Samouni: avevano perso tutto, ventinove persone della famiglia, donne e bimbi, uccise dai corpi speciali dell’esercito israeliano, le loro case erano state distrutte, gli ulivi sradicati, per i Samouni era la prima volta, quella comunità rurale infatti negli anni del conflitto era sempre stata risparmiata.
L’anno dopo il trauma era ancora fortissimo eppure i due giovani che dovevano sposarsi celebrano lo stesso il matrimonio. Ma come rendere cinema tutto questo? In che modo dare la «prima persona» a una realtà sovraesposta nella superficie mediatica quale l’occupazione israeliana in Palestina, tra fake news, strategie del dolore, letture univoche? Savona prova a spostare il suo punto di osservazione guardando tra le crepe, negli scollamenti che rimangono fuoricampo appena finisce il clamore, in quel quotidiano di lacrime, desideri, ira, disperazione: il vissuto dei personaggi che non è come quello degli altri anche se la loro esperienza si fa parabola di una condizione, e nel film trova un’immagine anche quando non ne ha nell’animazione di Simone Massi. Qui appare il sicomoro, qui ci sono il padre, i fratelli.
E la devastazione, la brutalità dell’esercito israeliano nei giorni di Piombo fuso. Avanti e indietro nel tempo: la bambina che si chiama Amal è stata ferita nell’attacco, la credevano morta e invece respirava ancora con le schegge delle bombe nella testa e sepolta dai cadaveri degli altri. La casa dove vive ora è una sola stanza piena di fratelli piccolini, la madre che era la seconda moglie del capofamiglia, cerca di sopravvivere come può. Il fratello più piccolo, ora il maschio di casa, pensa alla vendetta, al «martirio». La madre lo carica di responsabilità: sarà lui a occuparsi di noi. È possibile crescere con questo peso mentre gli slogan martellano?
I figli maggiori del padre lasciano scorrere i giorni. Gli ulivi erano il loro vanto, erano antichi e ne rimangono solo due. Tutto sembra inutile come la vecchia zappa. Eppure l’orto continua a crescere come i mandorli, i ragazzini corrono via e mangiano i frutti un po’ amari. I fidanzati provano a farsi coraggio, non hanno più i genitori ma le nozze saranno la loro gioia. I frammenti compongono lentamente una progressione temporale non lineare, che procede in senso «antiorario» senza flashback ma a partire dai dettagli delle cose, dei luoghi, da un gesto, da un silenzio.
Non volevano scappare come gli altri i Samouni, si sentivano tranquilli, non avevano mai avuto problemi con Israele anzi molti di loro avevano lavorato lì. E quando i militari cominciano a uccidere non capiscono, si rifugiano tutti insieme in una casa, cercano di attaccarsi alle cose ordinarie: preparare da mangiare, accendere il fuoco… Savona sposta di nuovo il nostro sguardo, ci mette dietro il mirino dei cecchini israeliani: i Samouni diventano puntini sfuocati, un bastone per fare la legna un arma, sparano, uccidono, poco importa se ci sono bambini nel videogame della guerra sono solo ombre. E talvolta anche nella percezione comune. Rimangono le macerie, i vestiti sparpagliati, le tracce di sangue.Lo stupore. Le immagini «reali» (girate allora dal regista) prendono il posto dell’animazione, sono un «archivio» di cui però abbiamo imparato a riconoscere i protagonisti.
C’è una profonda differenza tra le figure mediatiche delle «guerre» – anche se tale non può definirsi l’occupazione israeliana – e coloro di cui sappiamo il nome, che ci hanno rivelato qualcosa della loro storia, con cui siamo entrati in empatia. Così come ce ne è tra le immagini istantanee e quelle che prendono forma nella distanza narrativa e si prefiggono di dare voce a qualcuno che non ne ha, oltre la cronaca e l’indignazione momentanea, nella dimensione di ogni giorno.
È quanto fa Savona affermando una precisa idea di «documentario» ( e di cinema «politico») in cui l’autore non si maschera nella pretesa di «verità» – è tutto vero – e invece dichiara la sua presenza attraverso i protagonisti, persone ma soprattutto «personaggi». Lo sforzo di Amal a raccontare sembra rimandare a quello del regista, a un film che nella sua forma si interroga costantemente su come confrontarsi con la «realtà», non in astratto ma nella pratica delle immagini, e che da questo trova la sua potenza e la sua grazia. Eccola quella «verità» che lascia fuori l’ideologia, sappiamo da che parte stare (e da che parte sta Savona) senza passare per la retorica del pianto, sono i sentimenti che vengono illuminati, e che ci portano a ragionare.
Nella trama affiora una società palestinese di contraddizioni, machista dove Amal fatica a trovare un posto perché «vai via che sei femmina», un uomo può avere due mogli se la prima non lo accudisce abbastanza. E la tragedia è materia di propaganda, utilizzata per convincere i ragazzi a diventare «martiri». Non è difficile del resto in mezzo all’inedia di chi vive rinchiuso senza alcuna scappatoia. Il conflitto è questo, il prima e il dopo, i cambiamenti che impone nella testa e nel cuore di chi lo attraversa. Gli equilibri fragili che impongono di ricomincia sempre daccapo, si piangono i morti, si aspetta un futuro che non non c’è. E quanto ci appare «lontano» fotogramma dopo fotogramma diviene reale.
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