Il festival è partito, nella sua edizione «fuori stagione» – che fa pensare al bel romanzo di Marie NDiaye – la luce è cambiata, in strada i vacanzieri, caftani bianchi e abbronzatura perfetta nella folla dei saldi che si sono appena aperti. Saranno tutti spettatori del festival, come ha detto Frémaux? Chissà. Forse di qualche serata con star – per ora non c’è stato il tempo di andare a vedere cosa accade alla Bocca nel nuovo multiplex ma le presenze di accreditati sono dimezzate mancando tutta l’Asia e molta America per le restrizioni di viaggio. Chi poi non è vaccinato o non si sente a suo agio, ha fatto una scelta saggia a non esserci visto che in due anni qui non sono stati in grado di studiare un sistema appena decente per evitare code ammassate – cosa che la Mostra del cinema di Venezia è riuscita a fare lo scorso anno, con molto meno tempo alla perfezione.

IL CONCORSO dunque che ha per ora nei voti dei critici francesi la prima Palma d’oro in Annette di Carax – per i «Cahiers» e per «Telerama». Secondo titolo, molto atteso specie dopo il trionfo del precedente Synonymes (2019), Orso d’oro alla Berlinale e amatissimo dalla critica francese, il nuovo film di Nadav Lapid, Ahed’s Knee, Il ginocchio di Ahed, (un po’ anche rohmerianamente Il ginocchio di Claire) ovvero Ahed Tamini, la ragazzina palestinese arrestata nel 2018 a sedici anni per avere schiaffeggiato un soldato israeliano, divenuta tra i palestinesi un simbolo di resistenza,e tra gli israeliani una terrorista. È su di lei che Y, un regista israeliano sta preparando un film senza riuscire a trovare i fondi visto l’argomento e il suo punto di vista, e quel ginocchio diviene la metafora della violenza che vive il Paese nella guerra ai palestinesi e al suo interno – un deputato della Knesset aveva detto appunto che a Ahed avrebbero dovuto sparare nel ginocchio.
Y viene invitato a presentare un suo film nella biblioteca di Sapir, in mezzo al deserto dell’Arava, una regione poco abitata e molto distante da Tel Aviv. A accoglierlo è responsabile del luogo, che da tuttofare nella biblioteca è divenuta direttore al ministero della cultura delle biblioteche di Israele. È giovane, appassionata, ama la cultura e i film di Y, ci tiene alla serata e che tutto sia perfetto, e forse l’uomo le piace anche un po’. Ma lui sembra a disagio, esasperato dall’attrice che lo chiama aspirando al ruolo da protagonista, mentre continua a telefonare alla madre ammalata di cancro, e sceneggiatrice dei suoi film, a cui invia le fotografie del luogo, il loro «miracolo», un lago in mezzo al deserto per realizzare il quale sono morti uomini e animali. Ancora un segno della violenza inarrestabile del Paese, della sua frustrazione, del suo «marcire» come i peperoni un tempo prodotto principe della zona, ora bruciati dal calore del cambiamento climatico.

DA COSA nasce la rabbia di Y, cosa significa? Forse è per quel modulo che la ragazza gli chiede di firmare, in cui si stabiliscono gli argomenti della conversazione pubblica: Olocausto, tradizioni, feste ebraiche, famiglia, esercito, storia del popolo ebraico, niente che guardi al presente, all’occupazione, all’educazione aggressiva che viene data dall’infanzia. Se non accetta sarà messo sulla «lista nera» degli artisti che non potranno più lavorare.
L’ispirazione autobiografica è dichiarata, nel personaggio di Y c’è un po’ di Lapid, sua madre, Era Lapid, era montatrice deri suoi film – ed è morta dopo Synonymes – e come si legge nel materiale stampa ciò che racconta attraverso il suo protagonista lo ha vissuto lui stesso presentando a Sapir The Kindergarten Teacher.
Non è però la verosimiglianza il punto di un film magnificamente «arrabbiato» nel senso della disperazione – lucidissima – più profonda, che con la furia del suo personaggio ne dichiara anche l’impotenza. Come reagire, come resistere in un paese che si definisce democratico ma restringe progressivamente la democrazia, che mette sotto silenzio gli artisti, che rimuove l’orizzonte nel mondo concentrandolo nel proprio, che è razzista e non solo nell’occupazione con cui calpesta migliaia e migliaia di persone? Y prova a «ricattare» la donna registrando alcune sue lamentele sul ministro «che odia l’arte». Ma cacciare lei è una battaglia politica o un’altra forma di aggressione?

LA REGIA di Lapid non dà risposte, lascia nelle frasi mitragliate da Y i suoi interrogativi: che riguardano anche quel machismo a cui sembra impossibile sottrarsi, che si fa regola di relazioni dominate da questa sopraffazione, in un mondo militarizzato quasi una sfida beffarda. Può Y farcela? Può mettere insieme la sua crisi personale e quella della realtà in cui vive, nel sentimento ambiguo che lo fa comunque appartenere a quel mondo? Forse quel suo mettersi a nudo – seppure scomposto – nella più segreta fragilità che non è eroica, c’è una forma di resistenza, quella di una parola che può ancora diventare uno spazio collettivo.