Ieri la Cina ha confermato il passaggio della sua portaerei Liaoning, di fabbricazione russa e acquistata dall’Ucraina, nello stretto di Taiwan, motivandolo come una normale operazione «compiuta in sicurezza», al termine delle recenti esercitazioni navali della marina.

Contemporaneamente il futuro segretario di stato americano, Rex Tillerson, ha specificato che l’intenzione della nuova amministrazione è quella di «mandare alla Cina un segnale chiaro» riguardo le zone contese del mare cinese meridionale: «Prima di tutto che fermi la costruzione di isole, poi che il suo accesso a queste isole non sia consentito».

Si dirà di uno scontro diplomatico, di provocazioni e risposte. La verità è che in tutto questo balletto di dichiarazioni, è la Cina a rappresentare la parte responsabile. Durante la sua campagna elettorale e nei primi discorsi da «presidente», Donald Trump ha utilizzato la sua retorica per lo più in funzione anti cinese: ha promesso dazi doganali, ha accusato la Cina di utilizzare lo yuan per scombussolare l’economia mondiale, ha parlato al telefono con la presidente di Taiwan, mettendo in un angolo la base del rapporto tra Pechino e Washington riguardo «una sola Cina», ha posto nel suo team personalità note per il loro approccio anti cinese.

A tutto questo la Cina ha risposto in modo pacato, riuscendo a contenere un sicuro fastidio. Jack Ma – stella dell’imprenditoria cinese nelle nuove tecnologie, con il suo gigante Alibaba – ha incontrato Trump promettendo investimenti cinesi, in grado di creare un milione di posti di lavoro negli Usa; sull’«affaire Taiwan», Pechino si è dimostrata attendista e piuttosto costruttiva, mentre in sede internazionale ha proposto quel concetto di «global governance» così caro al presidente Xi Jinping.

Quest’ultimo, all’apice della propria leadership, è in procinto di mostrarsi al mondo come un politico internazionale che opera in difesa della globalizzazione e contro gli istinti protezionistici e isolazionistici delle democrazie occidentali.

Per la prima volta, infatti, a Davos, al World Economic Forum, i lavori saranno aperti da un presidente cinese. Un’occasione impensabile solo una decina di anni fa, che sancisce il realizzarsi di una nuova epoca del mondo multilaterale.

Il salto è compiuto: la Cina si presenta come guida di un mondo che fino a poco tempo fa seguiva l’agenda dettata dagli Usa. E questo accade dopo che il nuovo presidente degli Stati uniti ha utilizzato per mesi una retorica concentrata proprio contro i «covi elitari» – come Davos – che avrebbero portato solo danni all’economia mondiale.

Non a caso i media cinesi hanno specificato che la Cina è pronta a porsi come «guida di un sistema economico mondiale aperto», dando per scontato un’eclissi americana e un’impotenza europea.

Pechino arriva all’appuntamento dopo un 2016 nel quale ha spinto sull’acceleratore. La Cina ha sempre avuto una postura internazionale piuttosto timida. L’adagio è sempre stato lo stesso: portiamo i nostri avversari a sottovalutarci.

Con Xi Jinping è cambiato tutto: la Cina ha creato una banca di investimenti propria, ricevendo l’adesione di importanti paesi occidentali, ha organizzato il G20 in casa, ad Hangzhou, proponendosi come potenziale guida regionale e mondiale.

Il progetto «One Belt One Road», la nuova via della Seta, ha visto concretizzarsi decine di accordi bilaterali che porteranno Pechino a investire e ricevere profitti da un progetto mastodontico che la collegherà a tratte commerciali nuove e redditizie.

E Xi Jinping nel suo discorso inaugurale al forum economico in Svizzera, dal 17 al 20 gennaio, ribadirà i concetti già espressi nel G20: indietro non si torna, il mercato globale non è in discussione e se gli Usa si dimostreranno inaffidabili, come già fatto con il Tpp e in Asia e come potrebbero fare anche con il Ttip per l’Europa, la Cina è pronta a prendere le redini mondiali, in nome della sua idea di «global governance».

La chiave di questo approccio sarà consolidato o messo in discussione proprio dal nuovo inquilino della Casa bianca. La giornata di ieri è stata un antipasto di quanto potremmo vedere nei prossimi mesi. Il nuovo segretario di stato Rex Tillerson ha – un po’ incautamente – paragonato il comportamento di Pechino nel mar cinese meridionale, all’annessione della Crimea da parte di Mosca.

Mentre Tillerson pronunciava il suo discorso in Senato, la Cina si è detta disposta a incontrare anche la controparte americana al meeting di Davos: «Ci sono canali di comunicazione aperti» e l’ipotesi si potrà realizzare «se il programma lo permetterà e se c’è il desiderio» di farlo. Al Forum per gli Usa parteciperanno Joe Biden e John Kerry; con loro anche membri della squadra del neo presidente Trump.