Il libro di Roberto Ciccarelli dà al giurista del lavoro da pensare fin dal titolo: Forza lavoro. In fisica, in effetti, il lavoro ha una definizione precisa, come «energia scambiata tra due sistemi attraverso l’azione di una forza». Nel diritto capire cosa è il «lavoro», e quindi darne una definizione precisa, è molto più complesso. È un processo che va avanti da diversi secoli, influenzato da innumerevoli fattori sociali, culturali ed economici. Prima di capire cosa sia il lavoro, poi, va investigato se, in termini giuridici, esista davvero il lavoro in sé e per sé.

I CODIFICATORI ottocenteschi davano una risposta positiva a questa domanda. Il lavoro era disciplinato nel diritto dei contratti e delle cose: si parlava di «locazione di opere e di servizi» per identificare lo scambio tra lavoro e remunerazione. Il lavoro era reificato in una entità a sé, che poteva essere separata dalla persona del lavoratore e della quale si poteva disporre liberamente. Corollario di questa concezione, funzionale al nascente sviluppo dell’impresa capitalistica, era la considerazione del lavoro come «merce», da scambiare sul mercato in cambio di un compenso. Lo scambio, poi, sarebbe dovuto avvenire, secondo i dettami del laissez faire, senza intralci regolatori quali regole su un minimo di compenso o su un massimo di ore di lavoro e, soprattutto, senza mediazione collettiva e sindacale. Su quest’ultimo punto, la concezione reificata del lavoro come merce comporta che ogni associazione o accordo volto ad aumentare il potere contrattuale del singolo lavoratore e quindi anche il prezzo di scambio della «merce-lavoro» si debba configurare come una violazione della libertà di commercio e delle leggi della concorrenza.

NEI PRIMI ANNI dell’industrializzazione, frequenti erano gli attacchi giudiziali ai sindacati «colpevoli» di alterare il libero gioco della concorrenza nel mercato della «merce-lavoro». Non è un caso che quando, negli Stati Uniti del 1914, una legge statuì per la prima volta il principio secondo cui «il lavoro non è una merce», fu per difendere i sindacati dagli attacchi dell’antitrust. Se il lavoro non è una merce, proseguiva la legge, allora l’azione sindacale non può essere condannata come un «cartello» sotto le disposizioni antitrust. Il principio che il lavoro non è una merce venne introdotto di lì a poco nell’atto fondativo della Organizzazione Internazionale del Lavoro, diventando così uno dei fondamenti del diritto internazionale del lavoro. L’originario scopo di difesa dall’antitrust si affievolì e il principio passò a significare, come insegnato dai fondatori del diritto del lavoro moderno, che il lavoro in sé e per sé non esiste, esistono le persone che lavorano e le persone hanno dignità, bisogni e diritti umani che rendono impossibile considerare il lavoro, giuridicamente, al pari di una merce.

Si tratta, ovviamente, di una questione ancora aperta. La fondazione del diritto del lavoro subordinato novecentesco col suo bagaglio di protezioni dei bisogni umani del lavoratore (malattia, maternità ma anche le limitazioni al potere gerarchico del datore sulla persona lavoratrice) tendeva a umanizzare il lavoro e demercificarlo. Per molti motivi, questo modello è andato in crisi negli ultimi decenni. Si sono sempre più diffuse pratiche organizzative che spostano il rischio derivante dai bisogni umani del lavoratore sulla sua persona e lo allontanano dal rischio di impresa. Il pericolo di questa nuova «mercificazione» del lavoro è poi oggi amplificato dall’(ab)uso di tecnologie che rendono, in effetti, invisibile il lavoro umano.

I FATTORINI DI DELIVEROO, gli autisti di Uber o i lavoratori dei magazzini Amazon, per non parlare dei crowdworkers, i lavoratori a cottimo online, rischiano in primo luogo di venire estromessi dal nostro immaginario. Ordinare una pizza col telefonino dal divano o farci consegnare gli acquisti online rischia di far passare l’idea che dietro le interfacce accattivanti del consumo online non ci sia lavoro umano, quasi che a recapitarci il tutto fossero algoritmi e robot, estensioni meccaniche dei nostri dispositivi senza fili e non persone in carne ossa. È facile allora pensare che il lavoro «digitalizzato ma non digitale» debba rimanere senza le protezioni a tutela della persona del lavoratore, anche se in molti casi i processi produttivi e distributivi si basano formalmente o riproducono informalmente gli schemi del lavoro subordinato che darebbe accesso a quelle tutele.

IL RISCHIO PRINCIPALE è che il lavoro diventi invisibile socialmente, rischio ancora più pronunciato quando si somma ad altre dimensioni tradizionali di invisibilità, come quella del lavoro domestico, da sempre ai margini delle attenzioni lavoristiche: i lavoratori domestici ingaggiati tramite piattaforma sono sempre di più. Ancora una volta, questo settore, che vede una presenza dominante di manodopera femminile e immigrata, resta ai margini del dibattito sul nuovo lavoro invisibile. È invece essenziale spezzare il circolo vizioso dell’invisibilità. Se cento anni fa era indispensabile rivendicare che il lavoro non è una merce, oggi è altrettanto urgente sottolineare che «il lavoro non è una tecnologia» e che, fin quando ci saranno persone che lavorano, ci saranno anche bisogni umani da tutelare sul lavoro.

CI SARA’ DIGNITÀ umana da proteggere dall’invasività degli strumenti di controllo digitale, dagli algoritmi che fissano i tempi e l’intensità di lavoro e processano i «voti» che i consumatori assegnano ai singoli lavoratori. Se anche si arriverà a un vero reddito di cittadinanza, la situazione non cambierà: la persona che lavora andrà ancora tutelata. E la dignità umana andrà protetta dal controllo tecnologico indipendentemente dal tipo di lavoro, subordinato o autonomo. Solo così il «futuro del lavoro» potrà assumere un’autentica dimensione liberatrice; al riparo dalle visioni ireniche o alle opposte previsioni distopiche, il dibattito va ricondotto alla sua essenziale concretezza: dietro il lavoro c’è la persona e le persone non sono merci. Né strumenti tecnologici.