Lia è appoggiata a un paracarro all’ingresso di piazza Duomo a Milano. Guarda sfilare il corteo, lunghissimo, e applaude a ogni bandiera palestinese. Al collo ha un fazzoletto dell’Anpi e una kefiah. «L’ho comprata anni fa a Hebron – dice – ma fino a oggi l’ho tenuta nel cassetto. Di solito venivo solo col vessillo dell’Anpi, ma questa volta l’ho voluta portare». La questione palestinese ha invaso la festa della Liberazione.

LA NUOVA MILANO
In piazza Duomo, già alle 13, le bandiere della Palestina occupano le prime file davanti al palco. In realtà, sono ovunque. Non c’è spezzone della manifestazione, di gran lunga la più partecipata degli ultimi anni, in cui il massacro in corso a Gaza non sia presente. Non poteva che essere così. Se i valori della Resistenza, come dice anche Primo Minelli, presidente del comitato permanente antifascista che organizza il corteo, «sono carne viva e cemento unitario della società italiana» quello che sta succedendo nel qui e ora nel mondo doveva essere centrale. Così è stato. «Stop Gaza genocide», c’è scritto su un cartello in mano a un giovane ragazzo, avrà vent’anni al massimo.

Lia applaude. «Quello è milanese», sottolinea. Certo, milanese di seconda generazione, come moltissimi partecipanti alla manifestazione. Ieri Milano c’è stata, e la cosa non stupisce. Milano c’è sempre il 25 aprile, perché la festa della Liberazione è nel dna di qualsiasi milanese che non sia fascista.

Ma ieri c’era anche una nuova Milano, quella delle seconde generazioni, che si è presa una fetta di corteo e l’ha fatto proprio. Chi in città ci vive, li conosce: sono i ragazzi e le ragazze (soprattutto le ragazze) delle periferie milanesi, quelle in cui sono costretti dalla gentrificazione. Indossano la kefiah, ascoltano la trap. E, dall’8 ottobre a oggi, hanno imparato a farsi vedere. Hanno riempito i cortei pro Palestina ogni sabato da mesi a questa parte e ieri erano in piazza per festeggiare una Liberazione che sentono lontana e per rivendicare la fine di un massacro che invece sentono vicino, troppo vicino.

QUELLI DEL 25 APRILE
Accanto a loro, c’era anche la solita Milano del 25 aprile, quella che sempre c’è stata e sempre ci sarà. Ma con una motivazione in più. Perché se al passaggio della Brigata ebraica a urlare «Israele assassino» c’era anche chi abita ogni giorno le vie della città un motivo c’è: la fine del massacro a Gaza è questione dirimente per molti.

A San Babila un piccolo cordone di agenti in assetto antisommossa è schierato per contenere i manifestanti, a poche decine di metri uno striscione con la stella di David e la scritta «anche loro, 5.000 sionisti liberarono l’Italia». Sono circondati da un servizio di sicurezza privato in giacca rossa e baschi blu, i City Angels, che vive con grande apprensione il momento. Gli agenti della digos tengono d’occhio costantemente lo spezzone che urla contro il genocidio e il sionismo. Passa la fanfara con il gonfalone del comune di Milano e subito dietro il sindaco Giuseppe Sala. Il primo cittadino sfila fissando lo spezzone ebraico alla sua destra e gli rivolge un cenno del capo, come a sperare che nessuno crei disordini.

QUALCHE TENSIONE
All’ultima svolta prima di piazza Duomo c’è un po’ di tensione. Ma in realtà i disordini non riguardano direttamente la manifestazione. Un gruppo di adolescenti, che parlano tra loro in arabo, esce dal Mc Donald’s all’ingresso della Galleria. Quando vedono le bandiere israeliane si lanciano contro la prima fila dello spezzone per cercare di sfilargliele. Ne segue una colluttazione che la sicurezza privata non riesce a sedare (nonostante si tratti di poco più di una rissa). La polizia interviene tardivamente e ferma due ragazzi, probabilmente minorenni. Un uomo dello spezzone pro Israele riporta una ferita a un braccio.

Sotto il palco, invece, alcuni manifestanti si innervosiscono perché alla loro richiesta di far intervenire due ragazze palestinesi gli organizzatori rifiutano. I toni si alzano, viene intonato qualche coro contro la polizia che si schiera. Per tre volte ne nasce un confronto. C’è qualche spintone, ma non è paragonabile a una carica o agli «scontri» evocati dalle agenzie. La stessa parte che protestava contro la censura imposta alle voci palestinesi si gira e parte in un corteo spontaneo che si interrompe verso le 18 a largo Cairoli senza incidenti.

INTANTO NELLE RETROVIE
Dietro non si passa. A percorrerlo in senso inverso, il corteo appare come un insieme di mille cortei che si intersecano. Ognuno ha la sua liberazione e la condivide, non la contrappone a chi lo precede o chi lo segue. C’è l’associazionismo storico, quello dell’Arci e di Emergency, c’è quello giovane e dirompente di Mediterranea. E poi ci sono i movimenti, mai stabili o prevedibili.

Si sta in maniche corte nello spezzone finale, che così finale non è perché la coda non si vede mai. Il sole aiuta, ma a scaldare è la marea umana, compatta, che porta calore. Quando la testa è a piazza Duomo, in fondo non ci si muove ancora. O meglio, si balla con la musica dei camion. Dietro quello dell’Api, l’Associazione dei palestinesi in Italia, c’è un altro pezzo della galassia che incrocia le battaglie femministe ed ecologiste, quelle dei centri sociali o per il diritto alla casa.

Sopra l’ingresso della metro un ragazzo sventola due bandiere palestinesi. Da quel punto si vede lo striscione che incornicia il camion del centro sociale Cantiere, sono raffigurati: Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu, Giorgia Meloni, Ali Khamenei, Joe Biden. Sotto i volti la scritta: «Stop global war».

Nel mezzo sfilano i gruppi d’acquisto solidale e popolare e il mercatino dello scambio: «Per noi il 25 aprile è una data fondamentale perché siamo le giovani generazioni che si trovano in uno stato di guerra globale. Quella ai corpi lanciata dai provita, quella al clima. E il genocidio del popolo palestinese: se nel ‘45 in Italia abbiamo strappato il diritto di liberarci, per i palestinesi non è ancora accaduto», dice Emma.

INTERSEZIONI
La Palestina è come una calamita, un vortice che attira chi ci ruota intorno. «I movimenti ecologisti sono sempre stati antifascisti – dice Daniele dei Fridays for Future di Milano – Oggi ribadiamo la centralità della resistenza partigiana, di quella ecologista e di quella palestinese».

La Palestina viene fuori da ogni gorgo, a ogni domanda. «I movimenti contro il disastro ambientale stanno subendo diverse forme di repressione – continua Daniele – E anche se adesso ci sono cause climatiche dentro i tribunali, la resistenza è iniziata fuori. La lotta non può passare solo dagli spazi di libertà che ci concedono».

LE RADICI NEL PRESENTE
«Quando diciamo che il 25 aprile non è una ricorrenza intendiamo che bisogna portare nelle nostre vite quotidiane la battaglia per la libertà combattuta dai partigiani – afferma Rajaa Ibnou, del collettivo Gaza Freestyle – Oggi non possiamo chiudere gli occhi su quello che accade nella Palestina occupata». Sullo sfondo sfila il camion del Lambretta con uno degli spezzoni dei centri sociali, tra i più partecipati e con l’età media più bassa. «La nostra solidarietà non inizia con l’ultima offensiva israeliana, ha radici profonde che partono dall’esperienza di Vittorio Arrigoni. Nel 2014 siamo andati a Gaza per la prima volta, per portare i progetti legati allo sport e alle arti underground. Il calcio, lo skate, il circo. Di quello che avevamo costruito non rimane niente: uno skate park è stato distrutto da Hamas, contro le cui politiche liberticide ci siamo sempre scontrati perché negavano la partecipazione alle donne e ai giovani, l’altro dall’esercito israeliano. La guerra ci ha anche impedito di realizzare la Casa internazionale delle donne a cui lavoravamo da tempo. Saremmo dovute partire a dicembre scorso».

Scorrendo contromano l’enorme serpentone di gente si incontra uno striscione tenuto in alto con le aste che dice: «I lavoratori Tigotà in lotta». Lo reggono operai della logistica, organizzati dalla Cub trasporti, originari di Marocco, Bangladesh, India, Italia, Pakistan e molti altri paesi. «Un mese e mezzo fa la proprietà ci ha comunicato la chiusura del nostro magazzino. Un licenziamento collettivo, di persone che per cinque anni hanno fatto turni duri, in qualsiasi condizione. I padroni hanno rifiutato tutte le nostre proposte. Vogliamo gridare a tutta l’Italia la nostra sofferenza: meritiamo anche noi dei diritti», dice Talbi Sofiane. Con i suoi compagni è partito da Broni, un paese in provincia di Pavia, a 50 chilometri da Milano.

Ancora più dietro sventola una grande macchia rossa: «Ilaria libera. L’antifascismo non si processa». Salis è anche l’unica candidata alle europee presente in foto sul camion di Alleanza verdi e sinistra, ma qui il suo nome è tenuto sopra le teste dei manifestanti dagli attivisti dello spazio sociale Micene. «Bisogna dimostrare solidarietà a chi ha avuto il coraggio di andare nell’Ungheria di Orbán a bloccare una manifestazione di nazisti», dice Rocky. La voterete? «Non lo so. La candidatura ci mette in crisi. Alcuni di noi hanno sempre votato più a sinistra, Potere al Popolo o Rifondazione, altri disertano le urne», risponde.

Più avanti passa Marta, è giovanissima: «Non ho mai votato, ma stavolta lo farò con convinzione. Per tirare fuori dal carcere un’antifascista dei nostri tempi».