La prossima manifestazione dell’estrema destra latinoamericana è programmata per oggi martedì 24 gennaio , quando a Buenos Aires inizia il VII Vertice della Comunità di Stati americani e caribegni (Celac ), presieduta dal capo di stato argentino Alberto Fernández. Il rientro del Brasile – dopo la defezione voluta da Bolsonaro – con la presenza del presidente Lula conferisce a questa Comunità di 33 paesi della regione il ruolo di spina dorsale della oleada progresista che ha di nuovo tinto di rosa gran parte dell’America, dal Messico all’Argentina, passando per Honduras, Cuba, Venezuela, Colombia, Bolivia, Brasile e Cile.

Il centro della discussione sarà infatti il rafforzamento delle politiche di integrazione del subcontinente latinoamericano per presentarsi come interlocutore sovrano rispetto al Nord del continente, Usa e Canada. Si tratta di un progetto che ha avuto come promotori il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador e quello argentino Alberto Fernández e recentemente presentato dal primo nel Vertice dell’America del Nord tenutosi a Città del Messico. Messa da parte la componente più ideologica dell’antimperialismo – l’ex vicepresidente boliviano García Linera parla di «un progressismo di bassa intensità» – i dirigenti della nueva oleada pretendono però che Washington rinunci alla politica di ingerenza (e di cambio di governi non graditi) in base alla dottrina Monroe, rimessa al primo posto nella politica verso il sud del Rio Bravo dall’ex presidente Trump.

Il successo di questa linea nella Celac tende anche a rafforzare il ruolo dell’Argentina e del presidente Fernández nella prospettiva delle difficili elezioni presidenziali e generali del prossimo 22 ottobre. La destra continentale ritiene l’Argentina l’anello debole dello schieramento avversario, forzando il quale potrà iniziare una riscossa continentale contro «l’espandersi del socialismo» nell’America latina. Insomma si propone di ripetere quanto accadde nel 2015 con l’elezione a presidente del rappresentante della destra, Maurizio Macri, che propiziò il ruolo dell’Argentina come punta avanzata dell’inversione di tendenza rispetto alla prima marea progressista, iniziata con – e influenzata dalla – presidenza di Hugo Chávez in Venezuela nel 1998.

L’attacco contro il rafforzamento della Celac e soprattutto per contrastare l’avanzata socialista, secondo l’analista Katu Arkonada, è stato preparato lo scorso novembre in una riunione in Messico «dell’estrema destra più grande del mondo», la Conferenza politica di Azione conservatrice, guidata dall’ex capo di gabinetto di Trump, Steve Bannon. Vari dei partecipanti, afferma Arkonada, «hanno avuto un ruolo importante nel golpe parlamentare contro Pedro Castillo in Perù, nel golpismo bolivariano guidato da Fernando Camacho in Bolivia e nell’attacco alla democrazia attuato a Brasilia dai seguaci di Bolsonaro».

Dalla “rimonta conservatrice” guidata dall’argentino Macri, però, molta acqua è passata sotto i ponti. Secondo Eduardo Lucita (del gruppo Economistas de Izquierda) le nuove destre radicali latinoamericane sono legate all’estrema destra europea, in primis alla spagnola Vox. Abascal e altri dirigenti di quest’ultima sono stati al centro di una larga catena di riunioni e fori in internet per costruire una sorta di internazionale reazionaria che definiscono Iberosfera, con una evidente nostalgia del passato coloniale spagnolo. Il fattore ideologicamente aggregante è «il pericolo comunista (…) in una regione sequestrata da regimi totalitari di ispirazione comunista, appoggiati dal narcotraffico, sotto l’ombrello di Cuba» . Una sorta di manifesto delle destre latinoamericane al quale hanno aderito Eduardo Bolsonaro (Brasile), Keiko Fujimori (Perù), José A. Kast (Cile) e Javier Milei (Argentina). Tutti leader garanti di politiche neoliberiste estrattiviste.

La critica contro il «marxismo culturale» – causa «della degradazione dei valori occidentali» – è il terreno di confronto eletto per vuotare di contenuto i conflitti di classe. Per queste destre «tutte le lotte, siano sociali, economiche o politiche vengono configurate come conflitti culturali». In base a una sottocultura che «è la contropartita della decadenza sociale imposta da decadi di politiche neoliberali». Ma che fa breccia nella ribellione giovanile contro la mancanza di alternative di vita che porta a criticare la «casta politica» e anche «il sistema» di democrazia liberale.

Anche se sconfitte in recenti elezioni (Perù, Colombia, Brasile), queste destre hanno mantenuto un forte zoccolo duro, che in Brasile supera il 40%. Sono forti e stabili, ma non avanzano. Però, secondo l’analisi dell’uruguagio Raúl Zibechi, sia l’assalto ai centri del potere politico a Brasilia, sia la feroce repressione in corso in Perù, indicano che a fianco di queste destre si schierano i vertici militari. Non per attuare golpes, ma per diventare «i guardiani dell’estrattivismo in America latina».

Scrive Zibechi che «Lula è messo in un angolo dall’alleanza militar-imprenditoriale che non vuole abbatterlo, ma imporgli condizioni». La prima è di «mantenere l’Amazzonia sotto controllo militare, organizzando e garantendo l’attività estrattiva, sia legale che illegale». Insomma, la sinistra latinoamericana deve rendersi conto che « il vero potere sono i militari… che non si assoggetteranno alla (inesistente) “legalità democratica”».