Una regista sta lavorando a un film, il punto di partenza sono le immagini di archivio con la folla che saluta entusiasta Hitler in visita a Mussolini. Prima di poter girare deve però sottoporlo alla censura. È il 2006, a Beirut la città protesta contro l’attacco israeliano, in un palazzo si incontrano due persone, le sole rimaste lì. Il Libano è sempre al centro della ricerca artistica di Lina Majdalanie e Rabih Mrouè, iniziata dopo gli studi di teatro a Beirut, dove sono nati e che hanno lasciato nel 2013 per trasferirsi a Berlino. «Avevamo voglia di cambiare e la Germania ci sembrava il Paese che aveva fatto il lavoro migliore di autocritica e autocoscienza rispetto al proprio passato. Dopo la guerra civile in Libano era   un gesto  importante rispetto alla rimozione che dominava da noi. La nostra era una visione utopica smentita dall’oggi».

La scommessa dei due artisti è quella di lavorare sull’esperienza personale e collettiva per interrogare la realtà sociale e politica di un Libano che appunto non riesce a fare i conti con la sua storia e le sue contraddizioni. Per farlo utilizzano in scena forme diverse – video, performance, film, ricerche private e finzioni politiche – cercando di rompere la linea che separa arte e realtà. Questa pratica permette ai loro lavori di superare i confini geografici, e di farsi ogni volta un laboratorio in cui il presente viene interrogato col passato. Photo-Romance – in scena ancora oggi a Zona K di Milano – è stato realizzato nel 2009, ma dialoga in modo preciso con la contemporaneità. Ne parliamo insieme agli autori al telefono, in una pausa dalle prove.

«Photo-Romance» è ambientato nel 2006, dopo l’attacco israeliano a Beirut. Voi lo definite: «Uno studio sul coraggio civile di fronte alle minacce autoritarie», e tra i suoi riferimenti e ispirazioni dichiarate c’è anche «Una giornata particolare» di Ettore Scola. Come si tengono insieme questi diversi elementi?

Nei nostri lavori ci piace cercare oltre alla scena un confronto possibile con un altro mezzo espressivo che può essere il video o come un questo caso il cinema. Il Libano è sempre il riferimento delle nostre opere, così come l’idea di costruire un rapporto fra la documentazione del reale e la sua rappresentazione. In questo senso il film di Scola è molto forte, attraverso i suoi protagonisti dà voce alle discriminazioni che riguardano le donne o gli omosessuali, ma anche a una dimensione collettiva che parla dei fascismi. Quando abbiamo pensato questo lavoro, nel 2008, Hezbollah aveva da poco iniziato a controllare la politica libanese mettendo in pratica una sorta di fascismo con la complicità dei nostri partiti politici. Non si tratta di una dittatura o della presenza di un partito fascista che in Libano non c’è, ma di un fascismo nelle forme del pensiero e della politica, della società in cui si riflette la tendenza autoritaria dei politici libanesi, che se avessero mano libera darebbero sicuramente vita a una dittatura o quanto meno a un regime autoritario. Per affermare tutto questo strumentalizzano le differenze tra le comunità religiose creando ostilità molto più grandi di quanto non siano davvero. Questo permette di nascondere le vere radici della crisi che vive il Libano, che sono un fatto di classe, rimandano alle differenze economiche fra ricchi e poveri più che alle religioni, e a un sistema politico corrotto. In Photo-Romance parliamo del Libano, delle nostre storie e di una storia con la «S» maiuscola che per noi è sempre attuale. Per questo ci sembrava una bella opportunità presentarlo in un momento che vede l’affermazione delle destre nel mondo.

Insieme a «Photo-Romance» a Milano proponete «Second Look». Di cosa si tratta?

È una serie di piccoli film e video che lavora sulle immagini fotografiche utilizzando la nostra collezione di fotografie raccolte nei mercatini delle pulci e un po’ ovunque. Riguardandole costruiamo delle narrazioni che intrecciano ricordi, racconti reali o immaginati.

 

L’archivio ha per voi una funzione di memoria?
Possiamo parlare di memoria quando rispetto a certe esperienze c’è stato un lavoro di elaborazione, di presa di coscienza che permette di superarle. Nel caso del Libano il passato non è passato, e se i nodi non si risolvono continueranno a riapparire in modo più violento. Ciò che mettiamo in scena riguarda il presente determinato da quegli errori che tornano, le situazioni che riaffiorano, un’idea di futuro negata.

 

Quanto accade oggi ne sembra la conferma, visto che una parte del Libano è di nuovo sotto attacco israeliano mentre va avanti la completa devastazione della Palestina, di Gaza, con l’uccisione di migliaia di persone ogni giorno.

È inaccettabile come il mondo intero sta guardando in silenzio quanto accade a Gaza – così come lo era per altre guerre, pensiamo alla Siria. È anche inaccettabile al di là dell’empatia o della tristezza non provare a fermare questi crimini. E non basta mandare cibo, aiuti, mostrare solidarietà; si tratta di assumere le nostre responsabilità, di fare qualcosa di concreto perché tutto ciò finisca, ora e nel futuro. Anche qui c’è un passato che non è mai diventato tale, come ci insegna Benjamin siamo davanti a una catastrofe che cumula rovine sulle altre. Se si parla del Libano non si può separarlo dal Medio Oriente. Lo spettacolo non fa riferimento a questi giorni  ma possiamo cogliervene il riflesso. È una questione molto importante: oggi ci viene detto che come arabi dobbiamo fermare quanto succede. Ma noi non possiamo fare molto, sono gli europei, gli americani che devono assumersi questo compito. Al tempo stesso però gli artisti arabi vengono cancellati, o attaccati quando  prendono delle posizioni critiche. Se ci chiedi come stiamo possiamo solo risponderti che cerchiamo di resistere alla  depressione. Vogliamo continuare a batterci per un pensiero razionale e democratico. Non si deve cedere all’emozione o perdere la razionalità anche perché ciò che spesso manca adesso nelle mobilitazioni è una visione del futuro. Si scende in piazza senza un reale progetto, siamo nella reazione e non ancora nell’azione.