La bandiera nazionale ricorda quella americana, i nomi di molte città e contee sono di origine statunitense e dai bancomat si prelevano dollari, se non bastasse il fatto che il Paese è stato fondato dagli schiavi afroamericani liberati. La Liberia condivide con gli Stati uniti più legami di ogni altro stato africano. Qui la reazione all’uccisione di George Floyd ha un carattere particolare.

«QUESTO FATTO È PER NOI come un tradimento» spiega Foday Kutubu Sheriff, ex studente dell’Università della Liberia, attivista e organizzatore di una protesta simbolica tenutasi giovedi scorso di fronte l’ambasciata americana di Monrovia. «Chiediamo che l’ambasciatore scriva una lettera formale al nostro governo per prendere una posizione chiara sulla vicenda e per rassicurare tutti i liberiani in America».

Ma nessun comunicato è stato emanato, nemmeno sul sito dell’ambasciata, nonostante molte altre rappresentanze americane nel continente africano hanno, insolitamente, rilasciato dichiarazioni. L’ultima volta si erano espresse su temi simili nel 2018, per tentare di rimediare alle parole di Trump, che aveva definito gli stati africani shitholes. Ora persino l’ambasciatore Usa in Congo (Kinshasa), Mike Hammer, ha riportato il tweet di un media locale: «Caro ambasciatore, il tuo Paese è vergognoso. Ha vissuto di tutto, dalla segregazione all’elezione di Obama, e ancora non ha sconfitto i demoni del razzismo».

ALTRE AMBASCIATE IN KENYA, Uganda e Tanzania hanno formalmente condannato gli eventi rimettendosi al Dipartimento di Giustizia del Minnesota che si occupa del caso con proprità assoluta. «Se non riceveremo alcun comunicato faremo un’altra protesta, enorme stavolta, in occasione dell’insediamento del nuovo ambasciatore» prosegue Sheriff. Trump ha infatti nominato pochi giorni fa Michael A. McCarthy come capo della missione diplomatica in Liberia. «Intanto chiediamo ai nostri concittadini di rifiutare l’ottenimento dei diversity visa, i permessi di soggiorno per entrare in America».

Il governo liberiano intanto tace, e non giova al presidente George Weah, il cui consenso è già in calo. «Non ci sono Paesi con più immigrati liberiani che negli Stati uniti. L’America è la nostra seconda casa» spiega Joel Cholo Brooks, giornalista liberiano. «È anche per questo che siamo molto delusi dal fatto che il governo ancora tace».

NEL RESTO DEL CONTINENTE non mancano le controversie diplomatiche. Il Ministro degli Esteri dello Zimbabwe ha convocato l’ambasciatore americano Brian Nichols per chiedere spiegazioni delle parole di Robert O’Brien, consigliere sulla sicurezza nazionale della Casa Bianca, che ha dichiarato in un’intervista a Abc news che il Paese africano «è tra gli avversari stranieri che stanno traendo vantaggio dalle proteste negliUsa, danneggiando la nostra democrazia», accusandolo, senza aver portato alcuna prova, di orchestrare gli scontri. Tutto da vedere, ma comunque ironico sentire l’America accusare altri di interferire negli affari internazionali.