Per i bilanci è ancora un po’ presto anche se ieri il festival ha inviato un comunicato stampa in cui con una certa soddisfazione si registrava finora un più 20 mila biglietti (su un totale di 272.000) rispetto alla scorsa edizione. Tutto bene insomma almeno sul fronte del pubblico, che in una manifestazione come la Berlinale è primario, per la nuova direzione di Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian, a smentire l’impressione che ci sia meno gente del solito intorno a Potsdamer Platz, la parte frequentata dagli addetti ai lavori. Forse è perché il business asiatico è fermo a causa del Corona virus, o perché la multisala del Cinestar, sede del festival del mercato ha chiuso lo scorso 31 dicembre – sulla porta un cartello ringrazia il pubblico per i vent’anni di fedeltà – svuotando il «futuribile» ormai invecchiato Sony Center che la sera semi deserto sembra un’architettura fantasma – nonostante i furgoni di street food trasferiti dagli spazi intorno al palazzo lì, con tanto di tavole e tovaglia a quadretti stile Bier Garten. Mentre il pubblico, compresi gli accreditati, si è disseminato nelle molte multisale della metropoli tra est e ovest, dunque difficile incontrarsi.

E A PROPOSITO di risultati (in termini di spettatori): chissà se hanno pesato – oltre a quei difficili equilibri che ogni festival ha con le sue produzioni nazionali – sulla scelta di presentare in concorso Berlin Alexanderplatz versione nuovo millennio – «Come massacrare un capolavoro della letteratura» è il commento di un collega uscendo dalla proiezione stampa. Fassbinder e le sue creature dannate dimentichiamoli il paragone sarebbe persino offensivo), la rilettura di Burhan Qurbani respira infatti furbescamente l’aria dei tempi piegando a ciò che di più banale possono offrire come chiave inrerpretativa. Il sottoproletariato nella Germania che va verso il nazismo del grande classico di Alfred Döblin diviene un sottobosco criminale nel quale la «vittima», Franz, è un migrante africano arrivato come altri in Germania senza documenti, perciò ricattabile e costretto a essere merce su quel mercato che è, appunto, la delinquenza. Tra una fuga e l’altra, Francis diviene Franz, che suona meglio in tedesco, finisce nelle spire di Reinholdt, un piccolo boss dello spaccio psicopatico, che gli fa scopare le sue donne,che è geloso e pretende da lui fedeltà, lo considera il suo schiavo, una «cosa» che gli appartiene e che può gettare via alla prima ribellione.

Jella Haase e Welket Bungué in Berlin Alexanderplatz

Qurbani, quarantenne tedesco-afghano ha spiegato che per lui il riferimento è più della serie fassbinderiana è stato proprio il romanzo di Döblin, lettura appassionata della tarda adolescenza, e che il suo tentativo nel film è quello di trovare una corrispondenza oggi a quella classe sociale che ne è protagonista. Al di là delle intenzioni (?) il risultato è una fiction di scarsa qualità, senza alcuna riflessione sulle scelte di messinscena che certo non significa shakerare ogni tanto la macchina da presa, né sul movimento emotivo dei suoi attori e tantomeno sui generi che vorrebbe attraversare, melò, dramma, e quant’altro sprofondando soltanto in una indigesta volgarità. Volgare è lo sguardo sui corpi, sulle storie, sui personaggi privi di spessore, di grana, immersi in un paesaggio fine a se stesso. Serviva davvero?

L’ALTRO TITOLO in concorso ieri è DAU. Natasha preceduto da un’aura hipster e da molte storie, anche molto negative sui metodi del suo autore. Prima c’è stata infatti la performance DAU – un progetto iniziato nell’aprile del 2007 come un film, e divenuto un prodotto multidisciplinare, mostrato a Parigi lo scorso autunno – per accedervi gli spettatori dovevano seguire un rigido protocollo, ottenere un Visa, lasciare i telefonini fuori in modo da non avere per le ore della loro permanenza alcun contatto col «mondo esterno». L’idea del regista, Ilya Khrzhanovskiy – che firma DAU. Natasha insieme a Jekaterina Oertel – era quella di ricreare il sistema sovietico degli anni Cinquanta e di farne vivere l’oppressione o – con gli effetti da essa prodotti – al pubblico. Per questo ha progettato un spazio, un istituto dedicato alla ricerca tecnologica nel quale gli interpreti, attori non professionisti ma anche artisti di passaggio,teologi, sacerdoti di diverse confessioni, scienziati hanno vissuto mesi insieme. La città era quella di Kharkiv, dove verso la fine degli anni Trenta Lev Landau aveva fondato un centro di creazione e di pensiero. Nel corso della residenza sono accadute molte cose, si sono rotte relazioni, sono nati del bambini, sono state pubblicate ricerche e via dicendo: un microcosmo governato secondo le regole dell’Urss anni ’50, costumi compresi in cui le dinamiche comuni al di là del contesto a ogni gruppo chiuso venivano amplificate: insulti, violenza, scontri, umiliazioni. Delle 700 ore girate in 35 mm – in situazioni pubbliche e nell’intimità di ognuno sempre però consapevole, il regista non ha usato mai sistemi di ripresa nascosti – Natasha. DAU ne utilizza 25, – è una prima tappa a cui seguiranno altri film.

LA NATASHA del titolo lavora nel ristorante dell’Istituto, che è un po’ il punto di ritrovo sociale insieme a una ragazza più giovane, Olga, e il rapporto tra le due donne è la prima delle linee narrative: amore/odio, Natasha di Olga detesta la giovinezza che l’altra esibisce quasi sfrontata sapendo di colpirla, perciò prova in ogni modo a controllarla, a sottometterla ma la ragazza si ribella. Si picchiano, bevono fino a stare male, si insultano e insieme sono legate l’una all’altra. Natasha fa sesso con un uomo (un ricercatore straniero) filmato nei dettagli, a qualcun altro piace più Olga, tutti sono soli, tutti si guardano senza empatia. Non è però «la storia» che interessa il regista, ma il dispositivo, una specie di reality più ambizioso il cui obiettivo è: come mettere in scena il potere?

QUESTIONE scivolosa perché il potere coincide anche con il ruolo del regista, del narratore, di colui che dispone delle sorti dei suoi personaggi che possono sfuggire, certo, ma anche rimanere racchiusi in quanto è stato deciso per loro. La narrazione qui si mescola a una certa «improvvisazione» esistenziale nel senso che la vita ricreata finisce per coincidere con quella «reale» senza però fratture o punti di fuga.Khrzhanovskiy sembra più interessato all’esercizio del controllo, tanto che il suo sguardo privo di qualsiasi empatia – che ricorda un po’ il primo Lars von Trier – finisce per coincidere perfettamente col passato sovietico che vorrebbe smontare: siamo in entrambi i casi in sistemi pensati per non per raccontare ma, appunto, per controllare – nel film il racconto stesso deriva dal controllo. Una rappresentazione che non sembra interessata a riflettere su sé stessa.