Davanti alle Gaggiandre sansoviviane, una bussola vetrata, quasi un residuato di cantieri in corso, scherma il grande, consueto ingresso del Padiglione Italia. È il primo segnale di un cambio di passo che attende il visitatore. Prima di entrare, sgranati ad uno ad uno, viene raccomandato di mantenere il silenzio, elemento sostanziale dell’esperienza immersiva che ci attende: un «congegno esperienziale» lo definisce il curatore Eugenio Viola.

Nella bussola c’è un vecchio schedario con i cartellini e l’orologio usato per timbrarli. Varcata la soglia infatti ci troviamo in un ambiente industriale, polveroso e abbandonato.

AL CENTRO una cabina di comando colorata di giallo; ai lati qualche centralina con luci rosse e verdi che a stento bucano l’opacità depositata dal tempo.

Su di una di queste suona una vecchia radiolina rimasta misteriosamente accesa; a tratti trasmette una canzone di Mina.

Sul tavolino del capo c’è il raccoglitore delle fatture (i conti sono ancora in lire), in mezzo a fogli disordinatamente sparsi con progetti di lavori che non si faranno più.

È una struttura più che dismessa, esausta.

Il secondo ambiente che ci attende, al contrario, è una scatola vuota, da cui pendono i grandi tubi per l’areazione; la luce opaca del primo ambiente, si fa intensa, quasi chirurgica, come se ci fosse ancora piena operatività. In realtà, è spettrale, perché quel vuoto indica un fermo delle attività: i macchinari non ci sono più in quanto sono stati venduti.

Si sale una rampa e si accede ad un ambiente casalingo anni 50, con piastrelle che scricchiolano e luce fioca da lampadina.

A fianco dell’anticamera, c’è una stanza da letto con vecchio letto matrimoniale di cui restano solo rete e testate; contro il muro un comò con grande specchio. La finestra s’affaccia, dall’alto, su un grande ambiente lavorativo, in apparenza ordinato e in apparenza operativo: è il vecchio modello casa e bottega, con la casa in posizione di controllo.

Se si scende si passa tra fila di tavolini muniti di macchine da cucire, e bobine di filo azzurro turchese pronto per essere lavorato. Ma anche qui il lavoro è storia del passato, seppur recente: le attrezzature vengono infatti da un laboratorio di Napoli, che ha chiuso le attività causa pandemia. Occupava la navata di una chiesa abbandonata e le grandi pareti oro e ruggine rievocano quel contesto.

La metà del Padiglione che si affaccia sui Giardini delle Vergini è tutta occupata dal colpo di scena finale del percorso: un grande ambiente immerso nel buio e invaso dall’acqua; anche se ci addentriamo sul piccolo molo allestito, non vediamo quasi nulla, sentiamo solo il risciacquo. Sul fondo, lontane e irraggiungibili, si accendono a intermittenza delle piccole luci: sono le lucciole pasoliniane, esili appigli visivi su quel mare d’inchiostro.

SI CHIUDE COSÌ il Padiglione Italia della Biennale, progetto controcorrente e intellettualmente ambizioso. Per la prima volta è stato affidato ad un solo artista, Gian Maria Tosatti, romano, nato nel 1980. «Storia della notte e delle comete» è il titolo, in cui risuona l’esperienza collettiva della pandemia. La notte però è più vasta, perché è quella di un modello arrivato al capolinea, di cui le povere e disperate macerie che abbiamo attraversato sono l’emblema. Le comete sono le lucciole, intraviste ma per ora fuori portata.

Fuori portata anche per cellulari e social, perché volutamente sono infotografabili. Anche questo è parte della scommessa lanciata da Tosatti e Viola, che hanno bandito ogni emotività pure in quell’ultimo atteso passaggio. Il progetto infatti è nato da un percorso di pensiero sul mondo in cui viviamo e su quel piano gli autori chiedono che i visitatori si attestino.

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Gian Maria Tosatti: «Come civiltà stiamo mancando a noi stessi»

Gian Maria Tosatti, foto Matilde Cenci


«L’opera io la guardo come fossi uno spettatore, ne sono stato il traduttore ma la storia che racconta – quella dell’ “assenza” – è in parte la stessa del nostro paese, dell’Europa e dell’occidente, soprattutto in questo momento. Credo che dovremmo essere più presenti, forse stiamo mancando a noi stessi come civiltà e così facendo siamo finiti in fondo a una notte. C’è una crisi ambientale che minaccia molte specie, ci sono le guerre in corso, c’è una crisi economica che ci fa capire che non stiamo lavorando insieme. L’assenza umana di questa opera ci parla un po’ di tutto ciò. Poi ovviamente ci sono gli echi dell’attualità con le fabbriche vuote, con le regioni dell’est Europa che diventano una corrispondenza lancinante. Ovviamente non era cercata però un’opera va al di là delle intenzioni dell’autore, sa sempre molte più cose risponde allo spirito del tempo e lo spirito del tempo sa già tutto. Noi l’abbiamo solo montata».