Sono passati quarantanove anni da quando La Maman et la putain è stato proiettato al festival di Cannes. Il cinema non è più stato lo stesso. Dopo la morte di Eustache, suicidatosi nel 1981, quel capolavoro è diventato quasi invisibile, salvo riemergere in una copia Dvd giapponese – che per lungo tempo i cinefili si sono scambiati come un sacro Graal – e, più recentemente, in un passaggio sul canale franco-tedesco Arté. Nonostante questo, è rimasto, come un’evidenza incontrovertibile, il più grande film francese del dopo 1968. È per questo che la sua riedizione, restaurata, e la diffusione in sala che seguirà, oltre ad essere il primo momento di una retrospettiva integrale di tutto il lavoro di Jean Eustache, è in sé un evento straordinario; mezzo secolo dopo la prima mondiale, uno dei più importanti di Cannes 2022.

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Le scommesse della Croisette tra autori e nuove prospettive Cosa voleva fare Eustache, con La Maman et la putain? Nulla, se non il cinema stesso. Forse nessun film nella storia ha avuto un’ambizione più sfrontata e un tale candore nell’affrontarla. Raccontando un semplice triangolo amoroso, con al vertice un personaggio autobiografico di dandy anarchico e individualista, Eustache si è al tempo stesso proposto di fare un film che tocca l’essenza stessa del cinema.

UN EFFETTO secondario di questa smisurata vanità è che La Maman et la putain è un film in cui si può ritrovare tutto il cinema. E al tempo stesso un’opera unica nella sua forma, nel suo contenuto, nel suo modo d’essere. È un film che ha la purezza dei più puri film muti: Aurora, L’Atalante, Nosferatu. Ed è al tempo stesso un film sporco e crudo, in una maniera che al cinema sarebbe stata impensabile prima degli anni Settanta. Per trovare l’equivalente dei dialoghi di Alexandre (Jean-Pierre Leaud) con Veronika (Françoise Lebrun) bisogna andare a cercare nella letteratura, in una sorta di punto di congiunzione tra Sade e Proust. All’epoca il film apparve come una reazione al 1968. Non a torto.
Leaud, che pure era stato uno dei volti del Maggio, sia nella lotta per far ritornare Langlois alla Cinémathèque sia per aver girato ne La cinese di Godard, presta la propria aurea ad un personaggio al contrario indifferente alla moda politica che soffia così forte a sinistra. Alexandre diffida della rivolta degli studenti non meno delle lotte sociali degli operai. E non sono poche le allusioni del film alla cultura di estrema destra. Il personaggio è ritagliato sulla personalità di Eustache, che pur essendo d’origini proletarie, non poteva solidarizzare né con gli operai né con gli studenti; la sua più grande sofferenza, di cui portò le stigmate tutta la vita, fu quella d’esser stato costretto ad abbandonare gli studi per entrare in officina.È cinema «puro» e sporco allo stesso tempo, tanto nostalgico quanto moderno La storia è raccontata ne Mes petites amoureuses, immediatamente successivo a La Maman et la putain. Eustache mal sopportava quei ribelli che occupavano le università dove a lui non era stato concesso di andare. Nel film c’è dunque questa profonda distanza dal Maggio. Distanza politica, estetica e, in ultima analisi, semplicemente temporale.
I personaggi si danno del lei. Si scambiano numeri di telefono che cominciano con il codice del quartiere (non si faceva più dall’inzio degli anni ’60). La musica va da Offenbach a Marlène Dietrich, Edith Piaf – il piano sequenza che chiude il film, in cui Bernadette Lafont mette il disco di Les amants de Paris e per i tre minuti della canzone resta stesa sul letto ad ascoltare e a pensare, è senza dubbio uno dei più struggenti ed audaci della storia del cinema, uno dei momenti in cui quella strana cosa che chiamiamo cinema, improvvisamente, appare in tutto il suo splendore.

C’È UN PASSATISMO, una nostalgia per l’ancien régime, costantemente affermato e intrecciato ad uno spirito assolutamente moderno. La chiave di volta è la città di Parigi. «Paris nous appartient!», era il motto della Nouvelle vague, che Eustache radicalizza fino a ribaltarlo. I film in genere hanno una scenografia, dentro cui i personaggi si muovono. Per La Maman e la putain è il contrario. Non c’è differenza tra Gilberte, Alexandre, Veronika, Marie, Les Deux Magots, o il Café flore, Jean Paul Sartre, L’Hopital Laennec. I luoghi e le persone coincidono in una sorta di metafisica. Per darne un’idea, bisogna andare a cercare un film apparentemente distante. Alla fine di Shining di Stanley Kubrick, si scopre che il personaggio di Jack non è entrato un giorno nell’Overlook hotel. E che è sempre stato lì, creato insieme ai muri dell’albergo.
In maniera affatto diversa, si potrebbe dire naturalista per distinguerla dalla fantascienza di Kubrik, Eustache ha filmato la stessa idea. I suoi personaggi appartengono a Parigi. Sono parte di essa da sempre. Sono come la città: al tempo stesso antica e moderna, bella e disgustosa, accogliente e violenta, madre e puttana.