Dopo la sentenza della corte di Strasburgo, a Malibu si limitano a ripetere il comunicato ufficiale: il Getty ritiene che il «possesso quasi cinquantennale di un’opera non creata da un artista italiano, né rinvenuta in territorio italiano, sia eticamente giustificato e in linea con la legge americana ed internazionale». La linea, insomma, è quella del ritrovamento in «acque internazionali» e l’Atleta di Fano resta quindi, per ora, nel museo in riva al Pacifico che lo ospita da quando, nel 1977, divenne il gioiello della collezione.

Il percorso che ha portato qui la statua greca è emblematico di quella che il New York Times, un paio di anni, fa definiva l’epoca «Indiana Jones» dei musei. Nel 1964 lo splendido bronzo, da molti attribuito a Lisippo, è stato pescato dall’Adriatico, pesantemente incrostato e impigliato in una rete a largo della località marchigiana. R

iportato a riva da un peschereccio, sparisce però immediatamente nei meandri di quella rete di tombaroli, contrabbandieri e mercanti senza scrupolo che alimenta un florido mercato nero delle antichità.

Il bronzo riappare nel 1971, acquisito dalla Artemis, un consorzio di mercanti d’arte con base a Londra che spesso funge da intermediario. È a Londra che il Getty firma il contratto per 4 milioni di dollari che gli consente di prelevarlo dal magazzino del tedesco Herman Heinz Herzer a Monaco di Baviera e di esportarlo, via Boston, in California. Un viaggio rocambolesco che presuppone, almeno nelle fasi iniziali, la probabile connivenza di autorità locali.

Per un primo intervento delle autorità italiane, sotto forma di una richiesta formale per la restituzione, occorre aspettare il 1989.

È un viaggio che nel dopoguerra hanno fatto molte altre antichità mediterranee, immesse nel mercato sotterraneo dell’esportazione illecita verso prestigiosi musei. Il Getty, fondato dall’omonimo petroliere non è stato l’unico a farvi ricorso ma, con la fretta di catapultarsi da collezione di facoltoso dilettante a museo di rango internazionale, ha intrapreso una campagna acquisti tra le più «aggressive».

Fra le fonti più sfruttate dal mercato nero negli anni 60, 70 e 80, ci sono i siti siciliani risalenti alle colonie greche dove l’inestimabile patrimonio archeologico dell’isola è stato per anni esposto ai raid dei tombaroli.

Uno di questi, Morgantina, la città greca conquistata dai Romani nel terzo secolo avanti Cristo, è servito da vero e proprio self-service per i trafficanti che nel 1979 vi hanno prelevato la grande statua ellenica detta «Venere di Morgantina», anche lei finita nelle gallerie del Getty.

Quella statua è passata per le mani di Orazio Di Simone, un noto trafficante di Gela, contrabbandata via camion sotto un carico di carote in Svizzera e da qui venduta da Renzo Canavesi, tabaccaio di Chiasso, a Robin Symes, grande commerciante di antichità a Londra e, infine, all’allora curatrice del Getty, Marion True.

Nel caso della Afrodite, le indagini intraprese fra gli altri dal tribunale di Enna, dal magistrato romano Paolo Ferri e della procura di Roma, cominceranno a disegnare la mappa delle vie sotterranee che ricettano e distribuiscono le opere verso i grandi musei del mondo.

La svolta avviene nel 1995 con il raid, a Ginevra, del magazzino del commerciante Giacomo Medici, un deposito di tesori in transito in cui vengono rinvenute molte foto che permettono agli inquirenti di dimostrare le origini «dolose» di molti pezzi in prestigiose collezioni.

Nel 2005, True finirà incriminata e processata a Roma anche se le accuse a suo carico, nel 2010, finiscono in prescrizione. Sosterrà sempre di essere stata un capro espiatorio che ha agito su indicazione dell’istituzione per cui lavorava.

Il sistema permette al Getty di svilupparsi in ricca «superpotenza» delle antichità. Oggi comprende due musei (oltre alla Getty Villa, c’è il grande Getty Center sulle colline sopra Los Angeles), un istituto di ricerca, laboratori di restauro e archivi meta di autori e studiosi di tutto il mondo. Il tutto è finanziato da un trust plurimiliardario (stimato in 8 miliardi di dollari circa).

Il Getty Center al J. Paul Getty Museum di Los Angeles
Il Getty Center al J. Paul Getty Museum di Los Angeles, foto Ap

Ma l’aria nel frattempo sta cambiando e le incursioni alla Indiana Jones stanno lasciando il posto a una deontologia più consona a istituzioni accademiche che ambiscono alla legittimità internazionale. Al «ravvedimento» di molti musei contribuisce un trattato Unesco contro il traffico illecito di opere d’arte. Ratificata internazionalmente la convenzione indica come trafugate e da rimpatriare quelle che hanno illecitamente lasciato il paese d’origine dopo il 1970.

A partire dagli anni 2000 all’imponente fortezza Getty, firmata Richard Meier e rivestita di travertino di Tivoli, cominciano a susseguirsi le visite di funzionari, politici e operatori del comando per la tutela del patrimonio culturale dei carabinieri. L’Italia chiede ufficialmente il rimpatrio di 52 opere della collezione individuate come irregolarmente esportate, fra cui le due statue greche.

Nel 2006 l’allora direttore, Michael Brand, motivato forse anche dal processo allora in corso alla collega Marion True, annuncia che 26 opere verranno restituite. A Roma, però, il ministro dei beni culturali, Francesco Rutelli, detta la linea dura: si esige il rimpatrio delle 52 opere pena l’embargo culturale dell’Italia all’istituto. Nell’agosto 2007 si firma il compromesso: le opere rispedite a casa saranno 40, compresa la Dea di Morgantina (dal 2011 si trova nel museo archeologico di Aidone, in provincia di Enna).

Rutelli, a Los Angeles nel 2008 per incassare la «vittoria» dirà: «Col Getty c’è stata battaglia e ora c’è la pace. Riconosciamo la correttezza e apriamo nuovi spazi per la collaborazione nella diffusione della cultura». Anche nella controparte sembra prevalere la volontà di distensione e di chiudere il capitolo che, come afferma Jason Felch, autore con Ralph Frammolino, di Chasing Aphrodite, un libro sulla vicenda della Venere, somiglia molto al traffico della droga per le somme di denaro coinvolte e per come alla spasmodica richiesta dei paesi «consumatori» ha fatto fronte l’abbondante offerta criminale in quelli «d’origine».

La disinvolta appropriazione e l’imperialismo culturale che esprime sono meno sostenibili anche nei confronti di popolazioni indigene che mettono i musei di fronte alle proprie responsabilità nei confronti dei paesi «di origine», spesso vulnerabili per povertà, dissesto o subalternità politica.

Negli ultimi anni, la nuova linea conduce alla restituzione di gran parte della collezione di artefatti nativi dello Smithsonian alle tribù d’appartenenza. Nel 2022, il museo ha rispedito in Nigeria la sua raccolta di 29 sculture bronzee del Benin.

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Nello stesso anno, il Getty ha restituito all’Italia il gruppo scultoreo in terra cotta del IV secolo a.c. «Orfeo e le sirene» il museo di Denver ha rimpatriato in Cambogia quattro statue Khmer (assieme ad altre 35 opere requisite a un collezionista privato di Silicon Valley), mentre 27 manufatti sono ripartiti per Italia, Egitto e Turchia dal Metropolitan Museum di New York.

Dal 2007 le stime parlano di oltre 20mila opere rimpatriate volontariamente o in seguito all’intervento delle autorità presso musei, collezionisti e commercianti.

Anche il collezionismo etico sembra però avere i suoi limiti.

Rimane al museo di Minneapolis, ad esempio, il «Doriforo di Stabia», copia marmorea romana di un bronzo greco escavato illegalmente in Campania e per il quale la procura di Torre Annunziata ha emesso un decreto di confisca. In quel caso, il Ministero della cultura ha decretato l’embargo di ogni ulteriore collaborazione e prestiti al museo finché la scultura non verrà restituita. E poi c’è il bronzo di Fano che al Getty considerano «difendibile» malgrado le sentenze del tribunale di Pesaro, della Cassazione e ora del tribunale europeo.

A propria difesa, gli americani adducono il ritrovamento in acque extra territoriali, ma l’argomento ruota attorno alla più grande questione della sovranità territoriale del patrimonio. Secondo musei come il Getty e il British (che rifiuta tuttora di restituire dei gruppi statuari del Partenone staccati bellamente da Lord Elgin nell’800) vi sarebbe un più grande interesse della posterità nell’esibizione e conservazione di opere a Londra e Los Angeles che non in piccole istituzioni locali nei luoghi di origine o ritrovamento.

Vi è poi chi sostiene l’opportunità si superare i rimanenti contenziosi territoriali a favore di una concezione di patrimonio dell’umanità in cui la stretta proprietà nazionale sia superata da accordi per la condivisione con prestiti e mostre itineranti.

È il probabile senso del linguaggio diplomatico del comunicato Getty, che afferma: «Apprezziamo molto i nostri annosi rapporti con il ministero, i musei italiani e gli storici dell’arte italiani che hanno dato luogo a una serie di progetti di conservazione, ricerca e mostre reciprocamente vantaggiose. Auspichiamo di continuare a espandere simili collaborazioni in futuro su prestiti di opere d’arte». Nel frattempo, valutano un nuovo ricorso davanti alla Grande Camera della Corte europea per i diritti umani che potrà durare oltre tre anni.