Nel suo Saggio sulla lucidità, José Saramago si diverte a immaginare la reazione scomposta delle autorità di un non meglio specificato paese democratico nell’apprendere, dalle sezioni elettorali sparse sul territorio, che un vero e proprio «sciopero del voto» è in corso.

Il governo grida al complotto, agita lo spettro di una cospirazione internazionale, «probabilmente di ispirazione anarchica», proclama lo stato d’assedio. Così nel romanzo. Nella realtà – la nostra realtà, sempre più vicina alla distopia della secessione del demos – a un fenomeno simile si reagisce con ben altro aplomb. Ed è facile pronosticare che anche lo sfondamento della soglia psicologica del 50% di non votanti alle elezioni europee appena celebratesi sarà ben presto digerito e metabolizzato, al pari dello storico 37% di votanti alle elezioni regionali in Emilia Romagna del 2014 che incoronarono (si fa per dire) Bonaccini presidente.

A chi giova il non voto? Ovviamente, dipende. Nel nostro paese, alle ultime elezioni europee, ha penalizzato soprattutto il M5S, favorendo i suoi diretti competitor. E ha consentito alla Giorgia nazionale di presentarsi a testa alta, da vincitrice, in virtù di una piccola crescita in termini percentuali del suo partito a cui corrisponde, in realtà, la perdita secca di circa 700mila voti rispetto alle politiche. In generale, per la nostra classe politica la crescita delle astensioni sembra non costituire un problema.

Lo è invece, senza ombra di dubbio, per la democrazia. E non perché astenersi non possa essere in certi casi una scelta consapevole, e legittima, di manifestazione del dissenso. Ma perché, oltre un certo livello, le distorsioni prodotte dal ritiro in massa dall’esercizio dei diritti politici, sommate alle deformazioni prodotte da sistemi elettorali maggioritari, rischiano di rendere illeggibili i risultati elettorali, generando illusioni ottiche che rendono problematico lo svolgimento della stessa funzione rappresentativa.

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Una democrazia dimezzata in un Paese diviso

«Rappresentare», in democrazia, significa – o dovrebbe significare – innanzitutto riprodurre, riflettere, rispecchiare, nel modo più fedele possibile, la distribuzione degli orientamenti politici nell’elettorato. Ciò è possibile a patto che il sistema adottato per trasformare i voti in seggi – la legge elettorale – sia rigorosamente proporzionale. E purché ci siano buoni livelli di partecipazione o, per lo meno, astensioni distribuite in modo uniforme tra i vari segmenti della popolazione. Ipotesi, quest’ultima, del tutto teorica, come l’ultima tornata elettorale europea dimostra.

Marco Valbruzzi ha denunciato ieri sul manifesto l’esistenza di una «torsione classista» della rappresentanza, riferendosi allo zoccolo duro dell’astensionismo cronico, che riguarda nel nostro paese circa 15 milioni di elettori, per due terzi provenienti dai ceti più svantaggiati. È la conferma di un paradosso – i poveri che rinunciano a esercitare diritti che sono stati loro a lungo negati – che emerge da decine di ricerche, in diversi paesi, e rispetto a diversi tipi di elezioni.

In Francia sappiamo da tempo fino a che punto si spinge la deformazione «classista» della rappresentanza, per il combinato disposto di una legge elettorale fortemente distorsiva e dell’alto numero di astensioni (da quel sistema elettorale incoraggiate), che riguardano in particolare soggetti marginali e periferici. Tanto da spingere Serge Halimi a scrivere, alcuni anni fa, che la politica sembra essere diventata «uno sport d’élite».

L’effetto di “verità” generato oltralpe da elezioni svolte col sistema proporzionale ha generato – come sappiamo – un vero e proprio shock, che ha spinto Macron a sciogliere in anticipo l’Assemblea nazionale. Ma ciò che oggi si rivela platealmente agli occhi dei francesi e del mondo – l’incapacità di Macron «Presidente dei ricchi», e del suo partito, di rappresentare gli interessi e le opinioni della grandissima maggioranza dei suoi cittadini – era vero da anni, ancorché quasi invisibile sul piano istituzionale (ma non nelle piazze, periodicamente attraversate da folle in tumulto).

Il problema è che la distorsione della rappresentanza prodotta non solo dai sistemi maggioritari ma dalla diffusa e diseguale (quanto a opinioni politiche ed estrazione socio-culturale) fuga dal voto, produce assemblee costitutivamente incapaci di svolgere quello che per Kelsen era il compito principe delle istituzioni democratiche: raggiungere un compromesso tra i diversi interessi e le diverse opinioni dei cittadini. Di tutti i cittadini. Anche perché i conflitti che restano privi di visibilità e voce nelle istituzioni non per questo svaniscono, ma rischiano di riproporsi in forme radicalizzata, e difficilmente mediabili, nella società.