Non c’è bisogno di precedere o attendere il voto francese per decidere i giochi in Europa, anche se poi mandarli in porto è un altro paio di maniche. Seppure un trionfo del Rassemblement national non mancherebbe di esercitare un potente effetto simbolico e propagandistico, la situazione è già delineata nei suoi connotati principali. Un deciso avanzamento delle destre c’è evidentemente stato seppure non tale da rovesciare del tutto il quadro politico europeo, almeno per quel che riguarda i numeri. La sola incognita di massimo rilievo con la quale converrà urgentemente confrontarsi è se esista o non esista più il famoso “cordone sanitario” che separa il centro conservatore dall’estrema destra nazionalista. Molti segnali denunciano la permeabilità, se non proprio l’aleatorietà, di questo confine. Non sono mancate occasionali aperture da parte di esponenti del Ppe, a partire dal suo presidente Manfred Weber, e ancor più nelle diverse forze politiche nazionali che confluiscono nel Partito popolare europeo. Del resto l’alleanza di governo tra centristi, liberali e destra nazionalista e xenofoba è una realtà ormai sperimentata in diversi paesi europei non proprio secondari: dall’Olanda, all’Austria, alla Svezia. Anche la presidente della Commissione Ursula von der Layen ha mostrato di non disdegnare un qualche rapporto costruttivo (della propria carriera) con almeno una parte dell’estrema destra.

Ma il ruolo di apripista di un nuovo asse della politica francese (e poi europea) decisamente spostato verso la destra spetta di diritto al presidente dei Repubblicani Eric Ciotti. Tuttavia il suo patto con l’Rn di Le Pen e Bardella ha spaccato radicalmente il partito erede del gaullismo, che lo ha destituito dalla sua carica, e scatenato una feroce guerra intestina.

Se i socialdemocratici a sinistra del Ppe non avessero paura anche della loro ombra e non avessero speso tutte le poche energie nell’assecondare politiche conservatrici, liberiste e securitarie, questo mediocre episodio francese potrebbe contenere un utile suggerimento. Si tratterebbe insomma di stanare i popolari, di scoprire infine se il cordone sanitario esiste davvero e con quale consistenza. Di chiarire, senza ambiguità, se il “grande centro” cristiano, moderato, atlantista, liberista e portabandiera della morale finanziaria sia davvero disposto ad allearsi con nazionalisti xenofobi, variamente permeati da ideologie parafasciste e interessi corporativi. Nonché decisamente ostili a qualunque ipotesi di approfondimento della costruzione politica europea. Terrebbero i legami interni al Ppe se una tale ipotesi di alleanza dovesse prendere corpo? O assisteremmo a una bagarre come quella tra i Républicains moltiplicata per cento o perfino a una spaccatura del Partito popolare?

Ma come fare a costringere simili campioni dell’ambiguità, dei sottointesi e dell’opportunismo governativo a venire allo scoperto? Ci possono essere diverse strade, ma una sembrerebbe la più a portata di mano: sfasciare la maggioranza Ursula in modo che potesse essere ricostruita solo a destra. Lo sfacciato opportunismo dell’aristocratica democristiana, la vergognosa ritirata sul Green deal, il corso reazionario imposto alle politiche migratorie facendo conto sulle dittature d’oltremare, l’inutile retorica bellicista, per voler ricordare solo le maggiori evidenze, sarebbero state più che sufficienti per ritirare la fiducia socialdemocratica alla presidente della Commissione in cerca del bis. Un gesto forte di chiarimento politico invece del mercato, tedioso e oscuro ai più, di nomine, cariche e posizioni di potere che è stato poi scelto. Naturalmente ci sarebbe stato un rischio come in ogni reale opportunità. Ma tanto valeva andare a vedere subito la strada imboccata dall’Unione europea senza esservi trascinati passo dopo passo, emergenza dopo emergenza dalle astuzie dei popolari, come puntualmente accadrà.

Se Eric Ciotti ci ha mostrato apertamente le pulsioni che attraversano un liberalismo ormai distante da ogni idea di società aperta, la destra italiana si è trovata a guardare in faccia la traiettoria obbligata di ogni nazionalismo, quella che lo conduce inevitabilmente a confliggere con il suo simile. Così ha dovuto sbattere la porta in faccia all’amico e ammirato modello politico Victor Orbán che non poteva tollerare l’ingresso nell’Ecr, che ora gli è stato precluso, degli ultranazionalisti antiungheresi di estrema destra dell’Aur rumeno. Di questa inclinazione dei nazionalismi a distruggersi a vicenda, che per ora si esprime nella proliferazione dei gruppi parlamentari, ci si potrebbe anche rallegrare se non sapessimo per lunga esperienza che comporta guerre, sopraffazione e dittatura e, per cominciare, la degenerazione dello spazio politico europeo in un’arena per le contese tra ambizioni e pretese nazionali.