«Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all’ultimo e non rimpiango nulla». Sono le parole affidate a una compagna da Vittoria Nenni, matricola tatuata sul braccio numero 31635, morta ad Auschwitz.

La figlia del leader socialista fu deportata nel campo di sterminio il 27 gennaio 1943, due anni prima dell’arrivo dell’Armata rossa. Non perché fosse ebrea bensì perché fece parte della resistenza francese al nazifascismo.

Una storia poco conosciuta così come è di molto sottovalutato il numero di morti della resistenza europea nei campi di prigionia nazisti.

Furono ben 230 le donne partigiane francesi deportate con Vittoria Nenni in Germania dal carcere di Romainville, non lontano da Parigi, «su un lurido treno». «Se avesse rivendicato la propria nazionalità italiana, avrebbe evitato la deportazione, ma volle condividere il destino delle compagne francesi».

Vivà, questo l’appellativo con cui tutti la conoscevano in Francia, morì ad Auschwitz il 15 luglio dello stesso anno: dopo quasi sette mesi di lavori forzati nelle paludi, dai quali resistette fra le poche («almeno 150 sue compagne morirono nei primi due mesi») si prese il tifo e non si riprese più.

In occasione della Giornata della memoria e a ottant’anni dalla deportazione ad Auschwitz di Vittoria, la Fondazione Pietro Nenni ha prodotto e pubblicato il podcast La storia di Vivà. La figlia di Pietro Nenni nell’inferno di Auschwitz che ripercorre la vita della terzogenita del leader socialista. Il podcast, disponibile sulle maggiori piattaforme, racconta la storia di Vivà, il suo impegno, la sua morte per la libertà, contro le violenze e i soprusi dei nazisti in Europa, dei fascisti in Italia.

Il podcast, in due episodi della durata di circa 15 minuti l’uno, è stato realizzato interamente dalla Fondazione Pietro Nenni. Contiene un audio originale di Pietro Nenni che ricorda «la sua figliola, alunna impegnata, così impegnata da pagare il suo impegno con la vita»; la testimonianza della nipote di Nenni, Maria Vittoria Tomassi; le letture dell’attore Peppino Mazzotta tratte da appunti di Nenni, e le ricostruzioni storiche del professor Giovanni Scirocco e di Antonio Tedesco, autore della biografia di Vivà.

Vittoria arrivò a Parigi a 12 anni, dove raggiunse il padre in esilio con la madre Carmen e le altre tre sorelle dopo che un anno prima – il 6 novembre 1926 – la casa della famiglia fu bruciata dai fascisti al grido: «Faremo fare a tuo padre la stessa fine di Matteotti». Pietro Nenni era già in carcere, poi decise di scappare in Francia.

«Parigi era la libertà», ricorda la nipote. Vittoria sposò giovanissima Henry e, quando Parigi venne occupata dai nazisti, lo convinse a utilizzare la tipografia di famiglia per stampare materiale antifascista. Gli ideali del socialismo, di giustizia e libertà inculcati dal padre furono portati all’estrema conseguenze da Vittoria. Alcune compagne comuniste francesi la convinsero ad unirsi alla resistenza e alla clandestinità.

Tutta la storia è dominata dai sensi di colpa: quello di Vittoria per l’arresto del marito e quello di Pietro per non essere riuscito a salvare la figlia da Auschwitz.
Vivà decise di stare vicino al marito il più possibile: fu arrestata proprio mentre visitava in carcere il marito, subito dopo fucilato.

Pietro Nenni seppe della morte dalla figlia due anni dopo, nel maggio del 1945 direttamente da De Gasperi, avvertito dall’allora ambasciatore italiano a Parigi Giuseppe Saragat. Il leader socialista visse con il peso della mancata richiesta a Mussolini (si conobbero da giovani in Romagna) della grazia per Vittoria: «Avrei voluto telegrafargli per dirgli: “Facesse di me quel che vuole, ma salvi mia figlia”. Ma mi pareva di compiere un atto di viltà».

La sua storia venne strumentalmente utilizzata da Israele per ricordare come nel dopoguerra non tutti i socialisti appoggiarono la causa della liberazione della Palestina, arrivando a considerare Nenni «un amico di Israele» perché «sua figlia morì ad Auschwitz».

Per commemorare Vittoria Nenni, nel 1988 il Psi le dedicò la tessera del partito, con un ritratto di Renato Guttuso.