Presentato alla Semaine de la Critique Salvo era diventato subito un evento, premiato col Grand Prix, pubblico e critica unanimi (o quasi) nell’entusiasmo del tutto imprevedibile per un’opera prima di due giovani sconosciuti che parlavano di mafia, di cecità, della conquista faticosa di una consapevolezza contro il silenzio criminale. Quattro anni dopo Fabio Grassadonia e Antonio Piazza tornano alla Semaine con Sicilian Ghost Story il loro secondo film, scelto per l’apertura: ancora il paesaggio siciliano, ancora una storia di mafia, stavolta ispirata a un evento di cronaca, il rapimento nel 1993 di Giuseppe di Matteo, figlio di un «pentito» ordinato da Giovanni Brusca di cui il padre del ragazzino, Santino, era uno degli uomini, per impedirgli di continuare a collaborare con la giustizia.

L’uomo invece andò avanti e come prevedibile i mafiosi ammazzarono il ragazzino dopo 779 giorni di prigionia facendolo poi sparire nell’acido. Non è la cronaca però o la sua ricostruzione che interessano Grassadonia e Piazza quanto piuttosto esaltare quella dimensione della metafora già al centro di Salvo, qui dichiarata sin dal titolo, Sicilian Ghost Story, un racconto di fantasmi, e la storia dell’amore assoluto e impossibile tra Giuseppe e Luna, la compagna di classe che continuerà a vederlo, a sentirlo, a volerlo mantenere «vivo» contro tutti, il paese, gli insegnanti, i genitori, uniti nell’omertà complice della paura. Luna invece come Orfeo è pronta a scendere agli Inferi per riportarlo sulla terra, o a morire per non perderlo, per dirgli il suo amore che è forte come un grido contro il silenzio.

È dunque di nuovo la questione della consapevolezza e della responsabilità contro l’abitudine a non vedere – quell’essere cieco che era nel primo film – che Grassadonia e Piazza mettono al centro della narrazione, rivendicando tra gli incubi più orrendi una possibile libertà. Ma cosa significa in termini di cinema? Di fatto un piacere di guardarsi filmare, il compiacimento del virtuosismo che se in Salvo era già fastidioso – sgonfiando dopo poco ogni tensione – qui diviene esasperato: fughe, movimenti sinuosi, i primissimi piani di un cardo, l’acqua che cola cola cola, dimensione liquida (ma assai poco baumaniana) in cui svaniscono i personaggi e le loro sfide.

Una danza sul vuoto che sfiora l’abiezione: è davvero «necessario» soffermarsi sui brandelli di grasso disciolto del ragazzino che fluttuano? Ci dice qualcosa in più dopo avere incatenato i protagonisti in un supplizio insostenibile – non sostenuto dalla recitazione di nessuno degli attori? E non si tratta di moralismo, no, perché il cinema della crudeltà, artaudiana magari, può avere una sua coerenza che non significa però semplicemente «compiacimento di sé». Non è politico, non rompe alcuno stereotipo: la metafora è qualcosa di più che una «bella immagine».