Il primo fine settimana è passato. Sfiniti dal pacchetto sicurezza con tutto ciò che comporta – code infinite, mani che frugano nelle borse più volte al giorno, una fanfara inutile che poco si cura però di ammassare la gente sui marciapiedi, in mezzo alle sbarre di metallo e alle macchine quelli sì pericolosissimi – entriamo nella seconda metà del concorso: colpi di fulmine pochi, vere passioni ancora meno. La classifica della critica internazionale (su «Screen International») mantiene al primo posto Loveless di Andrey Zvyaginstev, metafora rozza della Russia senza anima di Putin accarezzata col suo stesso compiacimento totalitario. Ed è interessante come questo totalitarismo dell’immagine solletichi il gusto festivaliero dei curatori e di un pubblico che se ne delizia così come si delizia della volgarità di Hazanavicius in Le Redoutable, ritratto in ridicolo di Godard, della Nouvelle Vague, del Maggio 68 che nemmeno il revisionismo delle fiction tv nostrane seppure scritte da «chi c’era» raggiunge.

Ma cosa significa un film «totalitario»? Troppo facile risolvere la questione in modo binario – «di destra» «di sinistra»; si tratta piuttosto l’uso dell’immaginario e delle immagini, di una «metafora» che sostanzialmente sfigura i personaggi e costruisce un sistema chiuso, che si compiace fino alla nausea del proprio guardarsi filmare.

È il caso del nuovo film di Yorgos Lanthimos The Killing of a Sacred Deer sacrificale già dal titolo, L’assassinio del cervo sacro. Che delusione questo regista greco così sorprendente ai tempi dell’esordio Kinetta (2005) – forse anche esso sopravvalutato? – beniamino di Cannes dove ha vinto il Certain Regard con il già sospetto Dogtooth (2009) – in giuria anche allora c’era Sorrentino – che ha abbandonato il greco per l’inglese dallo scorso The Lobster.

Di cui ritroviamo il protagonista, Colin Farrell, insieme a Nicole Kidman, coppia glamour di medici con due figli «bellissimi», lui chirurgo che non sbaglia mai – la colpa è sempre dell’anestesista se qualcuno muore sotto i ferri – lei oculista, la prole tutta talentuosa, musica, canto, capelli. Ma in questo interno familiare dolciastro, immagine di una borghesia asettica come le sale operatorie, irrompe all’improvviso un adolescente in cerca di vendetta: il chirurgo ha sbagliato e gli ha ammazzato il padre, lui lancia una terribile maledizione sulla famiglia condannata a morire finché il chirurgo non uccida lui stesso un familiare per essere pari. Gli equilibri saltano, la famiglia (comunità) si sgretola, ciascuno in cerca della sua salvezza, del «cervo sacro» da sacrificare.

23vis1lanthimoskidmanfarrell

Dal mito greco al suo rovesciamento: Lanthimos viviseziona con precisione assai più accurata del suo medico (sbronzo mentre operava) la progressione di vendetta e colpa nel suo compiacimento estetico – geometrie del movimento di macchina, suono, musica, paesaggio surreale,. Dalla prima immagine, un cuore aperto che pulsa, alle umiliazioni dei personaggi di fronte al nuovo padrone in cerca di una grazia, la narrazione si ripete senza punti di fuga. Un meccanismo vuoto come la sua metafora.

«L’istantanea di una famiglia borghese europea». Così nel dossier stampa viene riassunto Happy End di Michael Haneke (uscirà con Cinema), Palma d’oro per Amour (2012) di cui ritroviamo i protagonisti, Jean-Louis Trintignant e l’icona del regista austriaco, Isabelle Huppert anche se più che una conferma le loro presenze sembrano alludere a una relazione ininterrotta con i precedenti film, qualcosa di più della cifra d’autore, quasi un sequel – «Mia moglie era malata e l’ho soffocata racconta alla giovane nipote il personaggio di Trintignant arrivando da Amour con la sua vecchiaia infelice. È una strana geometria questa di Happy End, dall’apparenza impeccabile, in realtà piena di slittamenti e di insidie, il cui teorema è chiaro forse fin troppo nel confronto diretto con l’attualità. La famiglia borghese del titolo sono i Laurent, imprenditori in crisi economica: due fratelli, Anne (Huppert) e Thomas (Mathieu Kassovitz), e il vecchio padre (Trintignant), più figli, mogli, nipoti, servitù (maghrebina) tutti nella grande magione di famiglia appena fuori Calais, per loro i migranti sono invisibili, un’eco lontana come per tanta Europa.

Poi un giorno arriva la figlia tredicenne di Thomas, Eve, la mamma ha inghiottito troppe pasticche e lei è rimasta sola. Spaventata, in lacrime, innocente (ma Il nastro bianco ci ha detto dell’ambiguità dell’innocenza dei bambini) un po’ un’intrusa, figlia della prima moglie di Thomas che lui ha abbandonato senza occuparsene. Disturbante? Certo non come i migranti che appaiono tra razzismo e indifferenza agli occhi dei protagonisti, in quel nord della Francia dove la destra di Marine Le Pen ha avuto la maggioranza. In un’Europa come la famiglia di Haneke incapace di guardare da vicino il proprio malessere.