Due fattori di crisi investono l’Europa alle prese con la discussione sull’emergenza climatica e in piena transizione politica in due paesi chiave. La Germania nelle travagliate trattative per la formazione governo e la Francia vicina presidenziali.

Si tratta della quarta ondata della pandemia che investe in maniera drammatica soprattutto i paesi dell’Est e la Germania e la tragedia migratoria che si sta consumando ai confini tra Polonia e Bielorussia. Destinata, quest’ultima, ad acuire ulteriormente le tensioni già alte tra l’occidente europeo e alcuni dei governi postcomunisti dell’Europa orientale.

Le reazioni alla crisi epidemica in ordine sparso e in tempi sfasati dispiegano ora tutti i loro effetti di disorientamento e di concorrenza tra strategie di risposta differenti e mutevoli. Sullo sfondo l’equilibrio instabile tra difesa della salute e ragioni del mercato con una certa ottimistica prevalenza delle seconde.

Caratteristica principale della quarta ondata è quella di investire contesti che presentano, seppur in proporzioni diverse e in gran parte del tutto insoddisfacenti, una parziale copertura vaccinale della popolazione e un numero cospicuo di guariti. Condizioni che non si davano al momento delle precedenti ondate.

Seppure i dati attestino l’alto valore di protezione offerto dai vaccini, in primo luogo da evoluzioni gravi della malattia, il procedere della pandemia ha generato due atteggiamenti contrapposti: sul versante dei no-vax, ma più in generale dei renitenti e degli scettici, una sorta di conferma dell’opinione che il vaccino, se non dannoso, sia comunque inutile e dunque un rischio dai dubbi risultati che non vale la pena di correre.

Dall’altra parte comincia a farsi strada l’idea che ai vaccinati siano state concesse “troppe libertà” e che un certo numero di restrizioni andrebbero ripristinate per tutti. Argomento che peraltro rischia fortemente di scoraggiare le vaccinazioni. Caduti ormai il mito dell’immunità di gregge e la speranza che i vaccini ci avrebbero condotto in tempi brevi e senza sbavature fuori dall’epidemia, l’orizzonte si è spostato in direzione di una convivenza imprevedibilmente lunga con il coronavirus.

Tanto più che buona parte del pianeta, tagliato fuori da ogni concreta possibilità di copertura vaccinale (poiché affidata, dalla sacralità dei brevetti, ai sentimenti caritatevoli dei paesi ricchi) continuerà a produrre varianti e l’industria farmaceutica, detentrice di quei brevetti, a smerciare dosi di rinforzo. Un perfetto circolo del profitto.

In questo quadro all’interno dei confini dell’Unione europea rischia di prodursi una giungla di regolamenti, procedure e prescrizioni, di divieti e concessioni, aperture e chiusure tale da disarticolare qualsiasi processo unitario o tentativo di organizzazione comune. Laddove, ciascuno a suo modo e secondo le proprie convenienze stabilirà l’equilibrio tra protezione della salute e competizione economica, forte del controllo sociale che l’epidemia ha messo nelle mani dei poteri esecutivi.

Il prolungarsi della pandemia con tutti i suoi squilibri geografici non potrà che indebolire quel riflesso di solidarietà e quello spirito cooperativo che aveva condotto all’attenuazione del rigore finanziario e delle regole di bilancio quando la prima impennata dei contagi aveva scardinato il quadro economico e sociale. Una sospensione emergenziale che falchi e frugali premono per far rientrare nella vecchia norma. Accecati da una ideologia della “stabilità” ormai fuori dal tempo e dalla realtà.

La nuova crisi migratoria, sebbene alimentata artificialmente dall’autocrate bielorusso Alexander Lukashenko, che avrebbe “importato” profughi mediorientali per riversarli attraverso la Polonia nell’Unione europea, ha comunque il suo fondamento oggettivo nell’enorme bacino di perseguitati e migranti che la devastazione del Vicino Oriente ha generato. E che l’Europa non sembra affatto in grado di accogliere ordinatamente, limitandosi a minacciare ulteriori sanzioni contro il regime di Minsk dagli effetti comunque imprevedibili.

Resta il fatto che oramai è prassi di stati e governi utilizzare profughi e flussi migratori come pedine di un ripugnante risiko fatto di muri, frontiere, ricatti economici e politici. Tuttavia questa moltitudine di persone ha le sue aspirazioni, i suoi scopi e i suoi obiettivi che non si lasciano certo irretire nel miserabile gioco degli interessi nazionali. Sempre pronti a risolvere il problema con la violenza dei respingimenti. Come rischia di accadere ora sul confine tra due nazionalismi.

Quello filorusso di Lukashenko e quello “europeo” di Varsavia che comunque non mancherà di considerare qualsiasi soluzione adottata a Bruxelles come una violazione della sua sovranità. Le questioni irrisolte con alcuni regimi postcomunisti dell’Europa orientale si ripresenteranno così in una contingenza assolutamente tragica che rischia di far esplodere le tensioni e i conflitti che sul fronte delle migrazioni attraversano l’Unione europea.