Quando comparve per la prima volta, agli inizi del secolo scorso (1906), Josefine Mutzenbacher ovvero la storia di una prostituta viennese da lei stessa narrata provocò uno scandalo. Quelle pagine anonime scritte in forma di memoir narravano l’infanzia e l’adolescenza della protagonista caratterizzate da un numero infinito di rapporti sessuali con uomini giovanissimi e meno giovani ma anche con qualche donna, compreso l’incesto col padre sin da quando era piccolina, e lo facevano però con leggerezza e molta ironia, senza che Josefine parli mai di sé come una vittima. Ognuno di questi incontri veniva restituito nei dettagli e in un linguaggio spudorato nel quale risuonavano l’accento della sua origine proletaria, l’eco di una Vienna fine secolo, l’impronta letteraria dell’erotismo e per le generazioni successive una certa aura del proibito – il libro rimase a lungo clandestino, la prima pubblicazione è stata nel 1969.

LO SCANDALO divenne ancora più forte quando si scoprì che molto probabilmente dietro a quel testo «al femminile» c’era lo scrittore Felix Salten, autore di quel Bambi che ha ispirato il capolavoro di animazione disneyano. Da qui parte Ruth Beckermann per il suo nuovo film, Mutznenbacher, tra le visioni più potenti del festival che si è chiuso ieri, vincitore giustamente della sezione Encounters. E in questa nuova esplorazione del rapporto tra la parola e la sua messinscena, che era al centro anche del magnifico The Dreamed Ones – la corrispondenza amorosa di Ingeborg Bachmann e Paul Celan – la regista austriaca mantiene il dispositivo di scrittura del testo: a dare voce al vissuto di Josefine Mutznenbacher sono cento uomini scelti con un casting annunciato sul giornale in un’età tra i 16 e i 99 anni. Seduti su un divano dallo stile un po’ retrò, in un grande spazio che appare come un teatro di posa – nella realtà è una vecchia fabbrica di bare ormai dismessa – gli uomini da soli o in coppia, ragazzi o un po’ più anziani leggono alcuni passaggi del racconto: frasi che spesso intrecciano a osservazioni e commenti, ricordi personali, talvolta mostrano imbarazzo o una «naturalezza» esibita, un divertimento che vira al disagio. Qualcuno si interroga sulla malinconia di questi incontri compulsivi, altri esibiscono persino fastidio. «Lo trovo volgare» dice uno alla regista, che non vediamo mai in campo – e che non è neppure presente sul set ma dirige con precisione il gioco da lontano.

LEI LEGGE lo stesso passaggio, e lui replica che detto con la sua voce è diverso, perde la sua «trivialità». Perché? Cosa provoca questa resistenza? In altri la lettura è liberatoria, c’è chi ne confronta l’irriverenza con le rigidità di oggi che sembrano negare la liberazione dei corpi vissuta negli anni Settanta. O chi vede quelle pagine come un argomento da opporre alle critiche contro il maschile – «c’è un vero e proprio assalto ma io comincerei anche a parlare di “femminilità tossica”». Un ragazzo ammette che lui di fronte a Josefine sarebbe andato via – troppo timido quando era piccolo.
«Oggi il sesso è molto mediatizzato e al tempo stesso non è un problema. Come è possibile? Da dove arriva questo modo di confrontarsi col sesso nel mondo occidentale? Foucault diceva che la questione non era tanto che le società moderne confinano il sesso nell’ombra ma che ne parlano sempre mentre continuano a utilizzarlo come qualcosa di segreto. Il film prova a rompere le egemonie che ne sono derivate» si legge nelle note di Beckermann per il press kit del film. La «narrazione» del sesso che le memorie di Josefine compongono in una lingua antica, provocatoria intorno al pene (cazzo), alla vagina (fica), allo sperma in variazioni infinite e ricorrenti secondo le circostanze, ciascuna anche allusione con malizia al senso comune – pensiamo alla donna che con Josefine dice di godere come mai col marito il quale finisce sempre troppo presto – nella forma di una parola che non è mai «ricostruzione» assume un nuovo senso.

È UN UOMO che ha scritto quelle pagine, perciò sono i desideri (o i fantasmi) del maschile che vi si proiettano. Eppure secoli dopo a leggerlo mette ancora gli uomini un po’ in difficoltà. Dunque? È forse che i loro sogni erotici e sessuali espressi a alta voce sono bizzarri? O invece disorienta che il personaggio di Josefine non si descrive mai in modo succube o con vittimismo? Sempre pienamente consapevole della sua irruenza seduttiva, utilizza quel corpo e quella sensualità come la sua ricchezza, a pagamento e mai per dono perché lì è la sua forza. Però è solo una fantasia, un racconto, un’invenzione non un archivio di fatti.
La scrittura di Beckermann – e di Claus Philipp – lavora su questi bordi creando una distanza che permette di interrogare costantemente la propria materia. In essa il maschile come il femminile toccano tabù (pensiamo alla sessualità infantile), riguardano il linguaggio oggi in relazione al «politicamente corretto» e a quelle «costrizioni» che rischiano di trasformarsi in nuove censure. A ogni inquadratura è chiesto allo spettatore di mettersi in gioco, di confrontare i propri sentimenti con ciò che viene evocato da questa parola, perciò più densa e piena di irrequietezza: uno spazio del possibile che rimane aperto.