«Sì, ho visto in biblioteca alcuni vecchi numeri del manifesto. L’ho trovato in una certa misura affascinante. Ma vorrei dirle una cosa forse non positiva. Il vostro modo di fare i titoli di prima pagina, così diretto, è stato copiato dalla destra, mi pare. Che differenza c’è tra il modo di titolare ad esempio di Libero o della Verità e quello antico vostro? Voi, di estrema sinistra, avete aperto la strada al giornalismo della destra. È una mia impressione… da emeroteca».

Sto parlando con Giuliana, una studentessa del mio corso di «Deontologia del giornalismo» all’università Sapienza di Roma. Sta preparandosi alla laurea magistrale in Editoria e scrittura. È politicizzata, a quanto pare di sinistra (secondo le nostre vecchie categorie). Una rarità. Come una rarità è l’occasione, in questi tempi di Covid e di didattica a distanza, di poter dialogare con gli studenti.

Tutt’altro che raro, invece, è il tipo di rapporto e conoscenza che Giuliana ha nei confronti dei giornali «cartacei». E sto parlando, sottolineo, di ragazzi che stanno studiando con la speranza di fare i giornalisti. Non comprano quotidiani, al massimo visitano i siti di queste testate, oppure seguono le rassegne stampa. Non si sono mai sporcati le dita d’inchiostro sfogliando le pagine.

Il mezzo secolo trascorso dalla nascita del manifesto si misura anche da questo osservatorio giovanile: il declino del mezzo comunicativo di carta, declino impensabile negli anni ’70 e ’80, gli anni della nostra giovinezza professionale e politica.

Ma torniamo alla provocazione di Giuliana, alla sua osservazione apparentemente non banale: il manifesto ha fatto scuola, per quanto riguarda la titolazione, alla peggiore stampa di destra.

Avendo negli anni ’80 avuto qualche responsabilità in questo giornale, sono tenuto a tentare qualche sintetica risposta a quella studentessa. Su questo argomento si sono abbondantemente cimentati analisti e massmediologi in articoli, saggi, libri. Io mi limito a qualche indicazione di memoria personale.

Non so quale sarebbe stato il riscontro da parte del nostro maestro Luigi Pintor, caposcuola anche per quanto riguarda la titolazione. Per chi assisteva in quei tempi alla chiusura serale del giornale nella stanza del caporedattore, era uno spettacolo godurioso seguire la formulazione del titolo di apertura di prima pagina. E se Luigi non era fisicamente presente, lo si doveva cercare a un posto telefonico pubblico nel paesino di campagna dove si rifugiava. Non disponeva né del cellulare, com’è ovvio, né di un telefono fisso in casa.

Le nostre notizie, ci dicevamo, sono notizie, non possono essere un rosario di predicozzi mobilitanti. I fervorini erano preclusi. Ma non per questo non doveva emergere un puntuale e pungente punto di vista.

Anche la titolazione doveva attenersi a questa regola. Tutt’altra cosa rispetto alle urla malsane delle testate di destra (anche in quest’anno di Covid).

In una bella lettera Pintor ha scritto parole illuminanti al riguardo: «Al limite, non dovrebbe esserci differenza tra commento e notizia: il commento è tale se in pari tempo riferisce, informa e chiarisce, e la notizia è tale se per il posto dove è messa, lo spazio che occupa, il modo come è scritta, comporta, riflette, suggerisce e trasmette un giudizio».

Pintor ha fatto scuola, anche per quanto riguarda la titolazione. Lo stile dei nostri titoli ha avuto una forte evoluzione nel corso dei decenni (basti pensare al numero di parole impiegate, molte di più nei primi anni, molte meno, come una folgore, negli anni più recenti).

Tuttora i titoli di questo giornale sono spesso geniali, eppure le persone in redazione si sono succedute a frotte nel corso di questi decenni. Un premiolino da parte mia a un titolo recente: Lacuna nell’ago.

Un’altra caratteristica dei nostri titoli è definibile come il rispetto delle persone, compreso il rispetto dell’antagonista politico. Nulla a che vedere con l’opera di distruzione umana ancor prima che politica praticata dai giornali di destra.

Eppure la storia di questo giornale è costellata di grandi e prolungate campagne contro alcuni personaggi: da Fanfani a Andreotti, a De Mita a Berlusconi, per citarne alcuni tra i famosi. Ma nessuno ha potuto lamentarsi di essere stato offeso. E contro nessuno di loro si è cercato di sollecitare l’intervento del braccio armato giudiziario.

Il giustizialismo non ha abitato a via Tomacelli, né a via Bargoni, sedi della redazione. Peculiarità non secondaria.

Papa Ratzinger è Il pastore tedesco. Il successo di Berlusconi diventa Vince il peggiore.

Vogliamo fare confronti con la violenza e la volgarità (e spesso il sessismo) di certe aperture delle testate di destra? Boldrini? Conte? Il legittimo antagonismo politico tracima nell’annientamento delle persone.

La critica aspra al governo D’Alema fu qui titolata con Falce e Mastella. Roba da signori.

Per non parlare, infine, della capacità di questo giornale di assumere tematiche innovative, non proprie della sua cultura d’origine.

Penso al femminismo e, per ciò che mi ha coinvolto direttamente, l’ambientalismo. La battaglia post Cernobyl e contro le centrali nucleari, fino al referendum del 1987, fu condotta con nettezza. Come le lotte contro l’abusivismo e per la tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico.

Bellissima la pagina dedicata ad Agrigento: Abusivo è il tempio. C’è forse qualcosa di analogo nell’impostazione dei giornali di destra?

Chiudo questa breve riflessione con un post segnalatomi come pubblicato su non so quale social: «Io mi immagino la redazione del manifesto composta da 30 persone che si spremono le meningi per il prossimo titolo geniale e un povero cristo a scrivere tutti gli articoli che nessuno leggerà mai».

Eccessivo, ma con un nucleo di verità. Lo dedico a Giuliana.