«Sosteniamo la resistenza nel Panjshir» e «Non lasciate sole le donne afgane» recitano i cartelli esposti, nelle settimane scorse, dai residenti del campo profughi di Lesbo e poi diffusi sui social network.

Le vicende afghane hanno nell’isola greca un’eco particolare: già nel maggio scorso, quando un attentato aveva ucciso decine di studentesse in una scuola di Kabul, i richiedenti asilo avevano organizzato una veglia intorno alla statua di Saffo che capeggia nella piazza principale di Mitilene: «Smettete di uccidere i nostri fratelli» si leggeva su molti dei cartelli esposti.

Il 60% dei migranti oggi residenti nel campo profughi di Lesbo è infatti afgano. È presto per conoscere le conseguenze della presa di Kabul sulle rotte migratorie al confine greco-turco, ma già nei mesi precedenti alla vittoria talebana un richiedente asilo su due arrivato in Grecia era fuggito dall’Afghanistan.

Da giugno, tuttavia, la Grecia considera la Turchia un «posto sicuro» per questi richiedenti asilo; può quindi rifiutare di esaminare le richieste e respingere i migranti in Turchia. La scelta di considerare la Turchia un paese valido per ottenere protezione internazionale non si applica soltanto ai migranti afgani, ma anche a quelli siriani, somali, bengalesi e pachistani che, complessivamente, rappresentano il 65% di chi presenta domanda d’asilo in Grecia.

Il procedimento è rapido, le interviste vengono programmate poco dopo l’arrivo dei migranti e le decisioni emesse a stretto giro. «Nei colloqui gli operatori pongono domande solo sul trattamento ricevuto in Turchia» spiega Minos Mouzourakis, avvocato della ong Refugee Support Aegean, che offre sostegno legale negli hotspot dell’Egeo. «Non raccolgono informazioni sui motivi che hanno portato il migrante a lasciare il paese d’origine. La domanda d’asilo viene considerata valida solo nel caso in cui la Turchia risulti pericolosa per lo specifico richiedente: ma la maggior parte delle domande che abbiamo visionato finora sono state respinte».

La Turchia, da parte sua, si oppone dall’anno scorso ai trasferimenti, e di fatto li blocca: come denunciano Oxfam e il Greek Council for Refugees, la conseguenza di questa nuova politica è un’impasse dove «i richiedenti asilo vengono utilizzati come mera merce di scambio». Il caso emblematico è quello di una famiglia afgana, bloccata a Lesbo dopo che la propria domanda è stata respinta: il Sistema d’asilo greco ha infatti decretato che la famiglia debba essere trasferita in Turchia, dove aveva transitato per quattro giorni, e chiedere lì protezione internazionale. Nel primo semestre del 2021, il Sistema d’asilo greco ha concesso a quasi 10mila persone lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, mentre ha respinto nel merito circa 6mila richieste. Allo stesso tempo, ha respinto come inammissibili quasi 4mila domande per motivi come l’applicazione del regolamento di Dublino o perché ha considerato la Turchia un paese sicuro dove fare domanda.

Molti degli afgani residenti negli hotspot sperano che la salita al potere dei talebani ribalti l’esito della loro richiesta d’asilo. Tahmina – il cui cognome è omesso per motivi di privacy – ha già vissuto un anno a Moria con la figlia e oggi risiede nel nuovo campo costruito dopo l’incendio. «Qui siamo tutti preoccupati per qualche parente afgano che abbiamo lasciato in patria. L’Occidente sa cosa sta accadendo in Afghanistan: come può consideraci migranti economici?» commenta al telefono. Un anno fa, quando un incendio distrusse a Lesbo il più grande campo profughi d’Europa, 10mila persone si ritrovarono sfollate per le strade. Oggi nella nuova struttura vivono meno di 4mila migranti: una conseguenza del calo del 90%, l’anno scorso, degli arrivi in Grecia. L’accampamento non è più sovraffollato, ma le condizioni di vita rimangono drammatiche.

«Le faide tra gruppi etnici, le aggressioni sessuali e i comportamenti autolesionisti sono all’ordine del giorno tra i residenti – racconta Tahmina – ci avevano detto che non avremmo più vissuto in un posto come Moria: ora affrontiamo un altro inverno senza speranza». Del nuovo campo, finanziato e promesso dall’Unione europea per garantire condizioni di vita dignitose, non c’è traccia. Solo in questi giorni è stata scelta l’impresa edile incaricata della costruzione, mentre il 19 settembre è attesa l’apertura del nuovo hotspot nell’isola di Samos: il primo di una serie di nuovi campi profughi, «chiusi e sorvegliati», con cui il governo di Nea Dimokratia promette di gestire una crisi migratoria ormai cronica.