La patata bollente della crisi energetica, scatenata dall’impennata dei prezzi del gas aumentati del 200% in pochi mesi sul mercato internazionale, era ieri nelle mani dei ministri dell’Ambiente, riuniti a Lussemburgo.

Dopo i tentennamenti del Consiglio europeo della scorsa settimana, è ancora nulla di fatto, come già da mesi: la battaglia resta sul breve termine, a pochi giorni dalla Cop26 di Glasgow l’angoscia dell’immediato paralizza sulle decisioni per il prossimo avvenire, di fronte a una crisi climatica «catastrofica» (dichiarazione del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres). I 27 restano divisi.

Ci sono tre schieramenti che si contrappongono e che bloccano ogni decisione comune, mentre ormai già 19 paesi hanno preso misure nazionali per evitare un’esplosione della protesta stile gilet gialli, dal blocco dei prezzi agli assegni per le famiglie più vulnerabili (34 milioni di europei sono in difficoltà energetica), prendendo quello che ritengono più opportuno a livello nazionale dalla «cassetta degli attrezzi» proposta dalla Commissione per far fronte all’emergenza nel breve periodo.

C’è il fronte del «mercato»: con una lettera comune, 9 stati (Nord Europa) invitano ad essere «molto prudenti prima di interferire nella concezione dei mercati dell’energia interni»: guidati dalla Germania, Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Lettonia e Olanda (con l’appoggio di Belgio e Svezia) fanno pressione per non interferire sui meccanismi di mercato, che «funzionano da anni» e hanno evitato blackout.

Esce sconfitto, per il momento, il fronte (sud Europa) che chiede maggiore regolazione: è guidato dalla Spagna, che ha proposto di separare i prezzi dell’energia da quelli del gas (il meccanismo attuale si basa sul prezzo marginale del gas) e di avviare acquisti comuni di gas (sul modello dei vaccini, che ha funzionato), per «evitare asimmetrie» nel mercato Ue permettendo di «adattare la formazione dei prezzi dell’energia in situazioni eccezionali» come quelle attuali, oltre a misure per «evitare speculazioni finanziarie sul mercato Ets» (gli scambi di Co2).

La Francia e l’Italia sono in questo gruppo. Hanno ottenuto il vaglio dell’ipotesi di creare gruppi di «volontari» per eventuali acquisti comuni. In Francia, lunedì è stato presentato un importante studio, commissionato dal governo nel 2019, sull’avvenire del sistema elettrico del paese, realizzato dal gestore della rete Rte. Vengono delineati 6 scenari per rispettare nel 2050 due priorità: garantire la sicurezza di approvvigionamento e rispettare la neutralità carbone, come stabilito dall’Accordo di Parigi.

Gli scenari vanno dal 100% di energie rinnovabili al peso del nucleare ancora del 50%, cinque su sei considerano che la Francia abbia ancora bisogno del nucleare per molto tempo. Il terzo gruppo è rappresentato dall’Est Europa: sono i paesi che ancora dipendono grandemente dal carbone, sono critici verso il mercato del carbone e chiedono uno «stop» di tutte le politiche ambientali (oltreché più soldi per la transizione).

La commissaria all’energia, Kadri Simson, ieri ha ammesso: «non c’è accordo tra stati per nuove misure». Per Simson, «ogni stato può scegliere il proprio mix energetico e definire il proprio percorso verso la decarbonizzazione». A dicembre deve essere definita la «tassonomia» delle fonti energetiche europee (che potranno venire finanziate per la transizione): la Germania vuole inserirvi il gas (il North Stream 2 con la Russia è in fase di test), la Francia (con altri 10 paesi) vuole il nucleare.