Rovesciando il verdetto di primo grado emesso nel 2016, i giudici della Corte penale internazionale hanno ordinato l’immediata scarcerazione dell’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, da sette anni in carcere a l’Aja per «crimini contro l’umanità».

Non ci sono prove secondo la corte che sia stato lui, animato dalla volontà di restare al potere con qualsiasi mezzo e malgrado l’esito contrario del voto, a scatenare le violenze post-elettorali che nel 2010 causarono tremila morti. Lo stesso dicasi per l’ex ministro della Gioventù Charles Blé Goudé, che condivideva con Gbagbo il banco degli imputati per gli stessi fatti.

Con Jean Pierre Bemba, l’ex vicepresidente congolese liberato la scorsa estate dopo che erano cadute una parte delle accuse contro di lui riguardo ai crimini commessi in Centrafrica, Gbagbo era il pesce più grosso rimasto impigliato nelle inchieste del tribunale internazionale.
«Oggi la verità è stata appurata dagli stessi giudici che hanno condotto il processo dall’inizio. Hanno ascoltato tutti i testimoni, le argomentazioni dell’accusa e concluso che mio marito non avrebbe mai dovuto essere arrestato, né avrebbe dovuto essere consegnato alla Cpi». Parole di «gioia» dell’ex first lady Simone Gbagbo, condannata nel 2015 a 20 anni per attentato alla sicurezza dello Stato e scarcerata lo scorso agosto per effetto dell’aministia concessa a circa 800 detenuti politici dall’attuale presidente ivoriano Alassane Ouattara.

Insieme alla Francia, che fu costretta a mandare le sue truppe d’élite contro Gbagbo per consentirgli d’insediarsi, Ouattara è quello che ha accolto peggio un verdetto contro il quale il procuratore potrà fare appello nel corso dell’udienza in programma oggi.