Dell’attacco missilistico di domenica mattina a Mykolayiv non si sa quasi nulla. I giornali parlavano dei licenziamenti illustri in seno all’amministrazione di Kiev e dei nuovi movimenti nell’est. In Donbass la cosiddetta «pausa operativa» sembra sia terminata e diversi rapporti confermano il raggruppamento di nuove truppe pronte alla battaglia al confine russo. La cittadina di Bakhmut, situata nei pressi di un crocevia di importanza strategica fondamentale, è stata di nuovo bombardata pesantemente e su delle strade d’ingresso al centro urbano il cratere dell’esplosione è talmente grande da occupare tutta la carreggiata, da marciapiede a marciapiede. Intanto Kramatorsk e Slovjansk continuano a essere bombardate e nei piccoli villaggi al confine con l’ex-provincia ucraina di Lugansk i russi continuano a preparare il terreno bombardando dalla corta distanza con sistemi datati. Siversk, l’ultima cittadina a est sotto il controllo degli ucraini, non è ancora caduta e a Izyum tutto tace.

E POI C’È IL FRONTE SUD, ieri l’aeronautica ucraina ha condotto due raid nell’oblast di Kherson definiti dal portavoce del Comando operativo Sud «di successo». I bollettini di Kiev continuano a rilanciare messaggi in cui si invita la popolazione ucraina dei territori occupati ad allontanarsi con ogni mezzo possibile in modo da non cadere vittima del fuoco incrociato durante la controffensiva annunciata (già) una settimana fa. Nel frattempo, a Odessa sono stati colpiti gli ennesimi depositi di grano e, secondo Sergiy Bratchuk, portavoce dell’amministrazione militare dell’Oblast di Odessa un «numero significativo» di navi militari russe sono state dislocate dalla base di Sebastopoli, in Crimea, verso Novorossijsk, in Russia. Per gli ucraini questo è un segnale evidente del timore russo di avvicinare troppo le proprie navi alle coste ancora controllate dall’esercito di Kiev. Tuttavia, tra le due città ormai divenute un simbolo, Kherson della riscossa che verrà e Odessa della patria che si difende (nonostante le radici russe), c’è Mykolayiv, della quale si parla sempre meno se non nei bollettini dei bombardamenti e dei caduti.

MYKOLAYIV è stata per settimane la linea di sbarramento all’avanzata russa verso Odessa e il centro nevralgico della resistenza militare in tutto quel tratto di costa. I militari che ogni notte partivano verso Posad, a metà strada con Kherson, quando ancora la controffensiva era un tabù, erano di stanza qui e venivano depositati nell’obitorio locale. Spesso per terra, data la mancanza di tavoli. Il prezzo da pagare per i suoi abitanti è stato altissimo in termini di morti e distruzione ma la guerra ha bisogno di simboli e questa città industriale sul mare non ha monumenti o stragi che le hanno permesso di diventare una protagonista del racconto ossessivo di questi mesi.

A Mykolayiv c’era Andriy, un tenente ucraino che non aveva ancora compiuto quarant’anni e che ho incontrato insieme a un collega un giorno per caso vicino Bashtanka, a metà strada con Kryvyi Rih. Si era fermato insospettito dalla macchina parcheggiata al bordo della strada e, dopo aver che capito non eravamo spie russe, ci ha accompagnato per tutto il pomeriggio tra le trincee russe da poco abbandonate. Aveva chiamato sua moglie, Svetlana, che si era rifugiata in Italia dopo lo scoppio della guerra e ce l’aveva passata al telefono per farci spiegare bene quanto i russi fossero sconsiderati nella strategia, irrispettosi verso i loro uomini e antiquati negli armamenti. E poi si era offerto di aiutarci, di farci vedere le sue trincee a pochi chilometri da Kherson. La prima volta che sono rientrato in Italia ho ricevuto da sua moglie un regalo per il suo compleanno, un paio di scarpe da ginnastica di marca e una maglietta sportiva. «Ma quando avrà il tempo di andare a correre con una guerra in corso?» avevo pensato senza dire nulla. Poi, mentre glielo davo, si era quasi messo a piangere e mi aveva chiamato «amico» iniziando a informarsi periodicamente su dove fossi e se fossi al sicuro. L’ho visto l’ultima volta il fine settimana scorso, prima di rientrare mi aveva chiamato per portare un regalo a Svetlana, scusandosi e ringraziando molto.

PRIMA DI SALUTARE aveva preso il cellulare e mi aveva mostrato una foto di un bombardamento nella piazza d’armi della sua caserma, ma aveva chiesto di non scriverne dato che era un’informazione riservata, cosa che ho fatto. «Ma non puoi andare a dormire da un’altra parte?» avevo suggerito e lui aveva solo sorriso. Quando ieri ho chiamato Svetlana per consegnargli i regali lei mi ha risposto solo «Andrea morto». I russi hanno attaccato di nuovo nello stesso punto, come spesso accade, ma hanno aggiustato il tiro e stavolta hanno centrato gli alloggi. I giornali non ne parlano, non si sa quanti altri militari sono morti in quell’attacco perché, come dice il vice-ministro della Difesa Hanna Maliar, «l’Ucraina non rivelerà il numero ufficiale delle sue perdite militari fino alla fine della guerra». Al momento si sa solo che Svetlana è in viaggio verso l’Ucraina per recuperare la salma del marito e presenziare alla sua sepoltura. «Dopo che farai?» le ho chiesto, «non lo so, non importa» ha risposto piangendo.