I trattati medievali detti «bestiari», «erbari» e «lapidari», che descrivono i componenti dei tre regni naturali (animale, vegetale, minerale), fornivano una chiave simbolica ed etica per interpretare la realtà. Monstra e mirabilia affascinavano e si offrivano a una doppia lettura: naturalistica e allegorico-morale. Se questo era vero per le terre emerse, lo era ancora di più per i mari e i loro abissi inesplorati.
Navigare era pericoloso già nel Mediterraneo, dove si preferiva costeggiare seguendo l’esperienza e le indicazioni dei portolani; in mare aperto una tempesta poteva colare a picco qualsiasi imbarcazione. Fuori dal Mediterraneo, poi, almeno fino al Duecento, gli europei si erano avventurati ben poco e dunque gli oceani erano il regno dell’ignoto. Per questo i mostri dei mari scatenavano la fantasia, con il loro essere sia segnalazione dei pericoli di determinati passaggi (come lo stretto di Messina) sia rinvio a un universo simbolico non meno rilevante di quello espresso dai «bestiari di terra».

UN INTRECCIO DI LEGGENDE aveva quale centro il golfo di Antalya. Intorno a questo luogo erano sorte diverse ramificazioni di una storia riportata da Walter Map e poi ripresa da Benedetto di Peterborough, da Gervasio di Tilbury, dalla tradizione arturiana duecentesca, infine dai Viaggi di Giovanni di Mandeville.
Il racconto ruota intorno all’accoppiamento fra un uomo e il cadavere di una donna da lui amata, ma non posseduta in vita; dall’unione nasce una creatura mostruosa, una testa dai poteri magici (che, in alcune versioni, pietrifica chi la guarda), che alla fine verrà gettata in mare dove periodicamente provoca terribili tempeste. Tanto Walter Map quanto Gervasio di Tilbury, seppure in modo diverso, accostano questa storia a quella della Gorgone decapitata da Perseo: e non del tutto a sproposito, perché potrebbe difatti essere una rielaborazione fantasiosa di quel mito.

Il motivo si era diffuso nella letteratura volgare francese del Duecento, spesso senza legami espliciti con la storia del parto mostruoso e della testa, ma serbando numerosi riferimenti a un gouffre de Satanie: Satanie, con un ovvio riferimento demoniaco, sostituisce «Satalia»; nella testimonianza di Guglielmo di Tiro era questo il nome che gli occidentali intendevano dell’originario Antalya. Ma è anche interessante il modo in cui gouffre – abisso, ma anche gorgo, vortice – si sovrapponeva a golfe; il gorgo, la tempesta di Satalia divengono il nome stesso di quel luogo incantato, rinviando ancora una volta alla testa di Gorgone.
Anche le sirene del mondo classico venivano reinterpretate nei racconti medievali, aggiungendo loro nuovi tratti di fantasia. Soprattutto, nei bestiari e nelle miniature che li accompagnavano, la sirena viene rappresentata come un ibrido fra una donna e un animale, talvolta uccello, talvolta pesce.

Il bestiario duecentesco di Guillaume le Clerc dice che la sirena è un mostro di strana forma, perché dalla vita in su è la cosa più bella del mondo avendo forma di donna. Il resto del corpo è come un pesce o un uccello. Canta così dolcemente e meravigliosamente che coloro che navigano sul mare, appena sentono il canto, non possono fare a meno di andare verso di lei. Incantati, si addormentano nella loro barca, e vengono uccisi dalla sirena prima che possano emettere un grido. Aggiunge il coevo Bartolomeo Anglico che le sirene sono serpenti con la cresta oppure pesci del mare a forma di donna che vanno a gruppi di tre, e una di loro canta, un’altra suona un piffero e la terza un’arpa. Dal punto di vista allegorico, la storia delle sirene mostrava come coloro che si dilettano nei piaceri mondani diventano preda del diavolo.

NON MANCAVANO osservazioni reali miste a elementi fantastici. Secondo la Storia Naturale di Plinio il Vecchio, i delfini entrano nella foce del Nilo, ma vengono cacciati dai coccodrilli che reclamano il fiume come loro. I coccodrilli sono molto più forti dei delfini, quindi questi devono ricorrere alla strategia piuttosto che alla forza: per sconfiggerli, si tuffano sotto di loro e ne tagliano il ventre morbido con la pinna affilata che hanno sulla schiena. Era anche diffusa l’opinione che i delfini seguissero il suono delle voci umane e si riunissero in gruppo per cantare al suono della musica: per quanto espressa in termini fantasiosi, è un’opinione che trova conferma (il rapporto con la voce umana, il «canto») nella moderna etologia.

Fra tutti gli abitanti del mare, la balena riscuoteva il maggiore interesse. Nei bestiari si legge (e si vede attraverso le miniature) la storia della balena che rimane a galleggiare in superficie per lunghi periodi, per cui il suo dorso si copre di sabbia. I marinai che si avvicinano, pensando che la balena sia un’isola, vi sbarcano e costruiscono un fuoco per cucinare. Dopo un po’ il calore penetra nella spessa pelle della balena, che si immerge per raffreddarsi. La nave viene trascinata giù con lei e i marinai annegano. Quando ha fame, la balena spalanca la bocca ed emette un odore dolcissimo: allora tutti i pesciolini vi si riversano e la balena chiude le sue mascelle e li inghiotte nel suo stomaco, che è largo come una valle.

Anche la balena che inganna pesciolini e marinai e li trascina verso la morte rinvia nella lettura allegorico-morale al diavolo. Quelli di fede debole che cedono al dolce odore dei desideri mondani saranno inghiottiti dall’inferno. Bartolomeo Anglico dice che la balena ha una grande abbondanza di sperma, e dopo che ha generato, l’eccesso fluttua sopra l’acqua; se viene raccolta ed essiccata diventa ambra. Qui l’autore doveva aver notizia, seppur distorta, dei capodogli che producono ambra grigia, una sostanza diversa rispetto all’ambra comune, ma che veniva confusa dai cataloghi merceologici del tempo: la sostanza, prodotta in realtà dalla digestione, serviva nelle aree dell’Oceano indiano nell’industria dei profumi, ma questa conoscenza sarebbe giunta in Europa soltanto durante l’età moderna.

LA CONOSCEVA BENE Marco Polo, però, che ne aveva osservato la pesca proprio nelle acque del Mare Arabico. Dice infatti che l’ambra grigia si estrae dal ventre e che è ricercatissima. Gli indigeni attirano i capodogli con il tonno tagliato a pezzi e messo in grandi vasi sotto sale. Poi formano un equipaggio di circa dodici persone, prendono un’agile imbarcazione, vi caricano il tonno con tutta la salamoia, quindi entrano in mare. Si portano dietro dei brandelli di stoffa tuffati nella salamoia grassa e li gettano in acqua legati alla barca con una fune. Allora drizzano la vela e vagano tutto il giorno in alto mare: il grasso della salamoia lascia sulla superficie dell’acqua una specie di scia, e se per caso passano in un punto dove c’è una balena questa sente l’aroma e segue la traccia. Quando è arrivata in prossimità della barca, gli uomini la vedano e le gettano due o tre pezzi di tonno. Non appena li ha inghiottiti, la balena diventa come ubriaca, e alcuni di quegli uomini montano sopra di essa con un palo di ferro munito di barbigli sulla punta: una volta conficcato, non può essere estratto.

All’estremità superiore del palo è legata una lunga fune, con una o più botticelle e un travicello attaccati; sopra la botticella è fissata una bandierina; nella parte inferiore c’è un contrappeso, perché la botticella non si capovolga e la bandierina rimanga diritta. L’ultimo capo della fune è legato a una piccola barca occupata da alcuni cacciatori: quando la balena si sente ferita si dà alla fuga ma non è in grado di trascinare le botticelle sott’acqua. E così, tanto si affatica nel tirarsele dietro che alla fine si indebolisce e muore. Crudele e affascinante come una pagina di Melville.

 

SCHEDA. Orlando furioso e i capodogli dal pigro sonno

L’«Orlando Furioso» presenta un bel catalogo di creature del mare, vere e immaginarie. Ripropone anche la famosa immagine della «balena-isola» sulla quale Rinaldo ignaro sale: «Veloci vi correvano i delfini, vi venía a bocca aperta il grosso tonno; i capidogli coi vécchi marini vengon turbati dal loro pigro sonno; muli, salpe, salmoni e coracini nuotano a schiere in più fretta che ponno; pistrici, fisiteri, orche e balene escon del mar con monstruose schiene. Veggiamo una balena, la maggiore che mai per tutto il mar veduta fosse: undeci passi e più dimostra fuore de l’onde salse le spallaccie grosse. Caschiamo tutti insieme in uno errore, perch’era ferma e che mai non si scosse: ch’ella sia una isoletta ci credemo, così distante ha l’un da l’altro estremo. (…) E volendo vedere una sirena che col suo dolce canto acheta il mare, passian di qui fin su quell’altra arena, dove a quest’ora suol sempre tornare. E ci mostrò quella maggior balena, che, come io dissi, una isoletta pare. (…) La balena, all’ufficio diligente, nuotando se n’andò per l’onde salse. Di mia sciocchezza tosto fui pentito; ma troppo mi trovai lungi dal lito».

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4- continua