«Sono andati via di notte. Come ladri». Abdul Raqib ha «50 anni circa». La sua bottega è nel bazar principale di Bagram, all’angolo con una delle strade che costeggiano l’enorme base che è stata il motore della guerra al terrore degli Stati Uniti. Vende cartoleria.

Nei negozi accanto al suo si trovano t-shirt large-size, occhiali da sole, scarpe da ginnastica firmate, borsoni, zaini e scarponi militari. Simboli degli «americani» che pochi giorni fa, in sordina, hanno tolto le tende. «Io c’ero quando i russi si sono ritirati. L’hanno fatto via terra. Gli abbiamo dato l’arrivederci. Degli americani abbiamo sentito soltanto gli aerei che se ne andavano», commenta Raqib. Poco più in là, su sedie traballanti sono seduti tre uomini. Alle spalle, le pareti di cemento che proteggevano uno degli ingressi della base, dismesso da tempo.

Allahdad, 46 anni, dice che «una volta c’era lavoro. Io ho delle stanze che affittavo ai lavoratori. Ci sono stati anni fortunati. Ma poi gli afghani sono stati licenziati. Oggi non c’è lavoro, non c’è più niente. Vorremmo vivere in pace, come gli americani». Il ragazzo accanto ha lavorato «5 anni a fare pizze, altri 4 come operaio».

Costruita dai russi negli anni Cinquanta, già fulcro dell’occupazione sovietica conclusa nel 1989, poi di quella a guida statunitense, la base si è espansa nel tempo. Un ospedale, una clinica odontoiatrica, una prigione militare dove sono state commesse torture, Burger King, palestre. Da qui partivano gli aerei che per anni, tutti i giorni, in modo incessante, hanno scaricato bombe su bombe sul territorio.

L’obiettivo, i Talebani. Che avanzano. Nel nord-ovest i giochi sembrano fatti. Nel nord, nelle province di Badakhshan e Takhar, negli ultimi giorni hanno lanciato un’offensiva che ha spinto 1.600 soldati afghani a rifugiarsi oltre confine, in Tajikistan. Nel sud si sono avvicinati alla città di Kandahar. E continua l’accerchiamento di Lashkarghar. Bagram è lontana. Centomila soldati stazionavano qui. Oggi, non ce n’è più neanche uno.

In piedi su un panchetto, alle spalle file di t-shirt e scarpe da ginnastica, uno dei commercianti del bazar di Bagram dice che continuerà a tenere aperto fino alla fine delle scorte. «Poi chissà. Mi porti in Italia? Qui non c’è futuro». Un sentimento diffuso.

È il momento più drammatico degli ultimi venti anni. Incertezza, preoccupazione, frustrazione. Un’eredità pesante. «Non ci si comporta così – continua Abdul Raqib, già testimone del ritiro sovietico – Non hanno detto niente, non hanno coordinato nulla con l’amministrazione locale. Sono andati via così all’improvviso che tanta gente è entrata nella base, rubando quel che poteva», prima che arrivassero le forze afghane. Il Pentagono nega. Tutto concordato.

Ma i commercianti di Bagram dicono diversamente. Qualche chilometro più in là, lasciandosi alle spalle il bazar principale e puntando verso il cosiddetto Gate 3, spuntano i venditori dei materiali superstiti. Tutti sostengono che «gli americani hanno distrutto tutto apposta. Non hanno lasciato che poche cose, mezze rotte». In un ampio spazio protetto da basse mura di fango, a circa 500 metri dal Gate 3, si aggira una dozzina di uomini. Cercano qualcosa di intatto, funzionante. Si passano di mano in mano oggetti defunti.

Sull’altro lato della strada Mir Salam, barba ondeggiata con sprazzi di bianco, è di fronte a una grande bilancia. Vende metallo. «In genere ricavo 15/20 afghanis per ogni chilo», circa 15 centesimi di euro. «Sono contento che sono andati via – sostiene sicuro – Un giorno sono arrivati. Hanno distrutto questo Paese. Poi sono andati via».

Così non va, scuote la testa Mir Salam. Convinto che gli americani abbiano remato contro gli afghani. «Siamo musulmani. Non vogliono che ci sviluppiamo. Volevano mostrare che solo loro potevano svilupparci». Si guarda intorno. Ferraglia su ferraglia. «Hanno anche tolto l’elettricità alla prigione. Chi sta dentro dice che non c’è acqua né luce».

Una tesi sposata anche dai Talebani, che conoscono bene Bagram e che in queste ore continuano a macinare distretti su distretti. Mir Salam sostiene che l’economia di guerra non porta vero sviluppo. «Erano soldi facili. Cinquantamila, ottocentomila afghanis al mese (500/800 euro), anche di più, ma sono finiti quasi tutti a farsi di oppio, a giocare d’azzardo». Finiti i salari, lamenta Mir Salam, non è rimasto nulla. «Vedi qualche infrastruttura, qui intorno?». Poi ci sollecita. «Si sta facendo tardi. Meglio che ve ne andiate. Non è sicuro qui».