La sua sceneggiatura è una magnifica lezione di cinema, di quel fare cinema che crede (ancora) nelle immagini e nella loro infinita potenzialità rifiutandosi di essere l’illustrazione di un qualche script redatto secondo le regole del presente, dosato in modo da rendere il lavoro sul set prevedibile (e previsto) meglio se lineare a-b-c o già pronto per essere frullato nel futuro dell’IA. Lui cioè Jean-Luc Godard invece si è sempre affidato fino alla fine a ciò che vediamo, a un «invisibile che rende l’invisibile», che non è uno scioglilingua ma una dichiarazione poetica e politica.

LA PROIEZIONE di Scénarios (che significa «sceneggiatura») pienissima è stato il momento più intenso della giornata di ieri, «il nuovo e stavolta l’ultimo film di Godard – su cui torneremo – come ha detto presentandolo commosso Fabrice Aragno, direttore della fotografia di Godard insieme a Mitra Farahani, regista e produttrice di Le livre d’image che gli sono stati accanto fino all’ultimo giorno raccogliendo le sue lucidissime indicazioni su cosa è una sceneggiatura e come funziona il suo rapporto con le immagini e con l’immaginario – e il film di Coppola ce lo mostra bene, infatti ha irritato non pochi.

Meglio farsi guidare passo passo, più facile, o lasciarsi incantare da dispositivi pretestuosi. Proprio come accade in Kinds of Kindness, il film di Yorgos Lanthimos – in corsa per la Palma d’oro – fra i più attesi della selezione dopo il successo plurioscarizzato di Poor Things! di cui ritrova la protagonista, Emma Stone insieme a Willem Dafoe, e poi Jesse Plemons, Margaret Qualley, Hunter Schafer, Hong Chau. Un cast che ruota in tre diverse storie, ciascuna col suo titolo che ha come motivo di unione il nome di un fantomatico personaggio, una specie di mcguffin che diventa pura suggestione.

Al centro c’è ancora una volta il tema del controllo nelle relazioni umane – e della manipolazione violenta – esplorato nell’attraversamento dell’immaginario, non più quello del cinema novecentesco che accompagnava le piroette di Bella/Emma Stone, ma una sorta di flusso seriale da streaming, e forse pure una primitiva Intelligenza artificiale. La prima storia è quella di un uomo sposato con moglie amorevole che ha delegato interamente la propria esistenza al suo capo, hanno persino le iniziali del nome uguale: R, come chiunque finisca nella sua sfera di controllo. Robert (Plemons) – è talmente abituato al fatto che Richard (Dafoe) decida ogni dettaglio della sua esistenza da non sapere più scegliere da sé nemmeno un bicchiere di vino. L’altro decide come deve essere, se grasso o magro, cosa indossa, la casa in cui abita, quando fa sesso con la moglie (Chau), il fatto che non dovevano avere figli, quando fa sesso con lui e la sua giovane compagna (Qualley). Poi accade che Robert si ribella e il mondo gli si sgretola perché quella specie di God (autocitazione?!) lo tiene in mano e non c’è scampo per nessuno.

NEL SECONDO Plemons è un poliziotto – modello telefilm, la moglie (Stone) sparisce in mare, quando torna lui è convinto che non sia lei dunque va fuori di testa trasformandosi in un maniaco cannibale. Anche gli amici con cui la coppia oltre alle cenette divideva il sesso-poker non ci possono credere ma chi ha visto Lost e simili sa che potrebbe avere ragione. Capitolo finale, siamo in una setta: il dio è sempre Dafoe insieme alla moglie (Chau). Stone neo adepta vuole essere la migliore, i due fanno sesso con tutte e tutti ma solo loro possono, gli altri devono essere casti e intanto cercano la divinità perfetta per quella loro sacralità acquatica. Dopo il detour (almeno apparente) delle Povere creature, il regista greco torna alle gabbie di cui è fatto il suo cinema – con lui alla sceneggiatura c’è Efthymis Filippou, autore di The Lobster; Il sacrificio del cervo sacro; Dogtooth – che negli anni hanno perduto di senso al punto che viene da chiedersi se l’entusiasmo per Kinetta (2005), l’ormai lontano esordio non fosse stato un abbaglio.

Visualità raggelata, l’opposto netto del debordamento di macchine fantastiche sperimentato nel precedente – ma senza rinunciare a lenti anamorfiche e grandangoli (la fotografia è di Robbie Ryan come in Poor Things!) – Lanthimos schiaccia personaggi e attori, una galleria di figure psicotiche, in questo suo universo di superfici lisce, scandito dalla musica martellante e da provocazioni senza senza intensità. Ai suoi ammiccamenti con l’immaginario «popolare» (?) si crede poco, e se il gioco era quello del grande tema nel paradosso che è quel certo «tipo di gentilezza» non è decisamente riuscito. Lui è distante da tutto – autocompiacimento a parte – e così noi.