A ottant’anni Martin Scorsese ha fatto il suo primo western. E lo ha fatto – come Michael Cimino con I cancelli del cielo – scegliendo una chiave trasformativa, una lunghezza epica (più di tre ore e mezza) e una storia vera poco conosciuta, dal respiro e dalle ripercussioni vaste come le distese dell’Oklahoma in cui è ambientato e che, con una certa luna, si coprono di fiori blu.

Killers of the Flower Moon è un green western, un western verde, adattato dal libro omonimo di David Grann, già autore di Civiltà perduta (The Lost City of Z), da cui era stato tratto il film di James Grey.

«Essendo da bambino malato d’asma e quindi spesso costretto in casa, il western era il mio modo di vivere e apprezzare la natura senza crisi di salute. Ho sempre voluto fare un western», ha detto Scorsese nelle interviste sul film che ha rilasciato in questi giorni.

L’ultima parola sul genere, secondo il regista di Taxi Driver, l’aveva Il mucchio selvaggio. Come in risposta al tour the force cinetico di Peckinpah, Killers è un film monumentale nella quasi calma con cui la macchina scava la storia e si ferma sui volti dei personaggi, sulle note della bellissima colonna sonora di Robbie Robertson (l’ultima che ha scritto prima di morire).

Martin Scorsese
Ho voluto inserire scene che avevano a che fare con la cultura indigena, come i funerali e i matrimoni, così da capire meglio questo popolo

L’ attacco – un cinegiornale d’inizio secolo – sembra arrivare da un altro pianeta tanto le immagini sono inedite, il capovolgimento esatto della realtà di Frontiera a cui ci ha abituato il cinema. Nella contea omonima dello stato dove sono stati costretti a trasferirsi dal governo Usa, contrariamente alle altre tribù di nativi d’America, gli Osage sono infatti diventati ricchissimi grazie ad un accordo che ha lasciato loro i diritti di sfruttamento del sottosuolo gonfio di petrolio.

Scorsese immortala l’apparizione di quel primo zampillo di oro nero come se girasse una danza della pioggia. Qui sono i bianchi, in gran parte stanchi e un po’ straccioni, che se la passano male e che arrivano da lontano a vagonate per cercare lavoro.

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LA CRUDELE IRONIA, si apprende in dettaglio dal libro di Grann, è che i nativi miliardari – che vediamo sorridenti, eleganti in abiti colorati, ingioiellati a bordo di macchine lucide – non controllano veramente il patrimonio, che viene loro elargito da «guardiani» su richieste specifiche, con il contagocce.

A Fairfax, una Main street all’ombra dei pozzi, arriva anche Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), reduce dal fronte in Europa con i denti marci, che trova accoglienza dallo zio. «Non darmi del signore. Chiamami zio. O re, come mi chiamavi da piccolo» dice a Ernest William Hale (Robert De Niro), orco mellifluo il cui conto in banca vale una frazione di quello che gli indiani possiedono sotto l’erba pascolata dalle sue mucche (Il gigante di George Stevens, è un altro riferimento importante di questo film).

Tre le lezioni di vita che «il re» impartisce al nipote, durante il primo incontro c’è anche quella di non parlare troppo e di non sottovalutare gli Osage che sono silenziosi e ingenui, ma anche «molto molto furbi». Gli Osage stanno però morendo, misteriosamente, uno ad uno, uccisi dal diabete o in circostanze misteriose che nessuno si preoccupa di spiegare.

Dalla danza della pioggia si passa velocemente a un funerale. In caso di morte qualsiasi proprietà viene trasferita al parente più stretto, spesso e convenientemente un marito bianco. Come se l’associazione a delinquere che si delinea velocemente nella trama (Quei bravi ragazzi con lo Stetson, siamo in un film di Scorsese) non bastasse, le malefatte di Hale e dei governanti bianchi di Fairfax includono anche frodi assicurative e furti dei gioielli dalle tombe degli Osage morti.

Lo sterminio sistematico di una popolazione operato da ladri di polli: Scorsese ce lo presenta con classe, umanità e tragica ironia.

NELLA SCENEGGIATURA del film, Eric Roth non manca di citare un’altra epurazione avvenuta poco lontano proprio in quegli anni, il massacro di Tulsa (1921) in cui una folla di suprematisti bianchi mise a ferro e fuoco quella che allora era conosciuta come la Wall Street dei neri. E Hale, che sembra sapere bene cos’è il Ku Klux Klan, non manca di lasciarsi scappare anche qualche battutina sugli ebrei. Il razzismo non ha frontiere e viaggia nel tempo.

Anche Ernest – per amore e avidità – si sposa con una Osage facoltosa, Mollie (Lili Gladstone), che languisce di diabete mentre due delle sue sorelle vengono fatte fuori sommariamente. La strage assume proporzioni così vistose che da Washington Hoover manda l’Fbi.

Il libro di Grann dava molto spazio a quella che è considerata la origin story del Bureau. Scorsese è meno interessato alla «cavalleria» e più alla dinamica del male in atto. Contro cui, il volto fermo, paziente e sofferente di Gladstone sembra quello di un Cristo.

Nonostante le sue similitudini con Quei bravi ragazzi e gli universi criminali che Scorsese ha esplorato in tanti film, Killers è infatti uno dei suoi lavori più religiosi, nella vena de L’ultima tentazione di Cristo, Silence e soprattutto Kundun.