«In fondo è tutto qui: un piccolo gruppo di persone che amano il cinema e che credono in un’idea un po’ pazza». Così Josh Mond racconta It doesn’t matter, il suo secondo lungometraggio che sarà presentato a Cannes, nella sezione parallela Acid. Il regista newyorkese aveva esordito con James White, nel 2015 al Sundance – era poi stato producer di diversi lavori con Borderline film, da lui co-fondata – e se con questo nuovo film c’è una continuità per quanto riguarda i temi, la forma è però totalmente rivoluzionata.

Al centro ci sono sempre vite disastrate figlie di un’America che in pochi vogliono guardare negli occhi; e la dura strada per rafforzarsi e ridare un senso all’esistere. It doesn’t matter racconta questo processo giocando però con il rapporto realtà-finzione e sovvertendo ogni regola. C’è una corrispondenza video, tipica dei nostri tempi, tra un regista (Christopher Abbott) e il suo amico Alvaro (Jay Will). Quest’ultimo manda clip di tutto ciò che gli accade mentre, perso, vaga per gli States.

Sembrerebbe di trovarci di fronte a un diario senza filtri, con l’energia e il movimento della vita vissuta, in realtà sullo schermo ci sono degli attori che si lasciano però coinvolgere da questo «gioco» di vivere piuttosto che di recitare, specchiandosi nell’esistenza dello stesso regista, che afferma: «Ho vissuto con questo film per anni, dovevo poterci danzare all’interno della mia testa, per me fare cinema è necessariamente un’esplorazione di me stesso».

Abbiamo incontrato Mond, che attualmente vive a Parigi, su Zoom; rispetto alla sezione Acid, gestita da e in funzione di registi indipendenti, spiega: «Essere scelto dagli stessi filmmaker mi dà speranza, anche per il modo in cui promuovono i film, continuando a seguirli fino alla loro uscita in sala».

In questo film c’è un’esplosione della forma, quasi come cercasse un’immagine «liquida» per tenere il passo dei personaggi. Cosa l’ha spinta in questa direzione?

Per me Alvaro è uno storyteller viscerale, e mi sembrava che l’unico modo di avvicinarci a lui fosse realizzare qualcosa che sembrasse il più possibile autentico. Nella vita non abbiamo certo le riprese di tutto ciò che accade, per questo c’è anche dell’animazione nel film, per dare a Chris una prospettiva ispirata da Alvaro e per controbilanciare le sue storie un po’ scandalose. Il mio intento all’inizio era quello di creare una sorta di mixtape, con un mio amico durante il Covid parlavamo tutti i giorni attraverso il video. Io ero sulla cosa Ovest e lui sulla Est, così ho iniziato a registrare le conversazioni e abbiamo deciso di utilizzarle.

Il film è reso possibile dai dispositivi tecnologici veloci e leggeri, in quale modo hanno cambiato il cinema?

Credo che aprano delle possibilità per tutti, il fatto che in molti non abbiano i mezzi non significa che le loro storie non siano importanti. Io non ho mai avuto i social, ma credo che siano un’opportunità per molte persone di creare storie oneste, anche se spesso vengono scelti solo i «momenti buoni». E se invece mostrassimo tutti quelli brutti e difficili? Forse entreremmo in una connessione più profonda.

Dai crediti del film si evince che in molti hanno fatto le riprese. La tecnologia permette anche di rendere la realizzazione più collettiva?

Esatto. Eravamo una piccola crew di cinque persone compresi gli attori, il mio produttore e co-sceneggiatore, prendeva il suono. E poi il mio co-produttore era ad una camera e io all’altra. E se a volte non riuscivo ad andare a New York, c’era lì un mio amico che poteva girare quello che gli chiedevo. Si lavora con quello che si ha e si tira fuori il meglio da lì.

Il viaggio di Alvaro negli Stati uniti mostra un Paese decisamente diverso dalla narrazione mainstream.

Mi interessava concentrarmi su ciò che spesso rimane in ombra. Molto è cambiato negli ultimi 15 anni, la vita è piuttosto dura e in tanti faticano ad andare avanti, la divisione di classe è diventata preminente. La lotta dei giovani per sopravvivere nelle insidie del capitalismo è reale, i soldi sono una parte così importante della cultura che è come se si passasse la vita a inseguirli. Quando ci sei nato dentro, perdi la prospettiva su cosa sia la vita al di fuori di questo. Non penso che tutti siano fatti per vivere così, chi lo rifiuta spesso si sente un delinquente o un derelitto, perché non sa che ci sono altre possibilità.

Com’è essere un regista indipendente in questo momento?

L’Europa è il posto giusto in cui stare ma in generale non è semplice, soprattutto negli States è forse il periodo peggiore. Spero che questo film serva da incoraggiamento perché più siamo, più avremo possibilità di esprimerci in maniera genuina.