Quando, nel 1967, Josephine Johnson inizia a lavorare a L’isola nell’isola – resoconto di un anno dal suo ritiro tra le colline del nativo Ohio sud-occidentale che si squaderna, stagione per stagione, in un condiviso brulicare di relazioni con compagni di vita, perlopiù piante e animali, pochi gli umani –, a muoverla è assieme l’urgenza di registrare tutto quel che in natura la incanta e, per converso, l’incapacità di separare il senso di tanta bellezza dall’incipiente, drammatica consapevolezza della distruzione. Sempre soltanto evocate restano qui le correlazioni tra povertà, guerre, costrizioni, disuguaglianze, in primis il razzismo, e sfruttamento sconsiderato delle risorse, che l’avevano vista promuovere antesignana diverse campagne a livello locale e comunitario e che nel 1969, anno della pubblicazione del volume – ora riproposto da Bompiani, (pp. 253, € 18,00) con le illustrazioni di Chiara Palillo –, la Johnson evidenziò in un editoriale sul New York Times.

Tematiche già incrociate nel suo primo romanzo Ora in novembre – con sullo sfondo le difficoltà innescate dalla dust bowl, la serie di tempeste di sabbia che negli anni trenta colpirono le grandi pianure degli Stati Uniti –, romanzo che nel 1935 la aveva reso la più giovane vincitrice del Premio Pulitzer per la narrativa, a 24 anni, per quanto sarebbe poi rimasta per molti versi autrice dimenticata.

Osservatrice curiosissima di ogni fremito del vivente, incantata dalle creature compagne (e specialmente dagli uccelli), senz’esserne – dichiara – una fanatica, attorno a quel luogo amato che si fa snodo identitario e innesco creativo, ci fa partecipi di un presente che, dal tempo fulminato nel gelo d’inizio d’anno alla luce vetrificata del febbraio che lo segue, sfoglia le stagioni, magari in compresenza sui versanti differenti di due colline vicine, fino agli incantesimi agostani del nero occhieggiare di semi dell’aglio selvatico, passando per l’aprile, con quel troppo di tutto.

Mentre si arrampica sulla collina delle lumache o passa a trovare le tre grandi pietre o, ancora, in cerca di un nido, attraversa il boschetto dei noci e la piccola forra della marmotta, dismesse le cesoie e «la passione bizzarra di tutto riordinare», confessa che il desiderio d’essere una grande scrittrice a tutti i costi è passato. Ho capito, confida: «non posso rinunciare a tutto il resto di me, al mio affollato me». E i protagonisti del suo narrare sono felci enormi che tengono insieme i fianchi della collina, scarabei smeraldini che lampeggiano sulle pietre, la tartaruga con la sua antica testa di serpente, lo spiritello allegro, contro ogni vulgata, del gufo e le famigliole di procioni e opossum che mangiano insieme dalle ciotole che la Johnson lascia loro attorno a casa. Ancora, le alte, delicate guglie del giacinto selvatico, le api che sciamano nella menta, come pure l’ancestrale masso consunto con cui fermarsi a discorrere.
Tra predilezioni e antipatie – le scintillanti coccinelle a puntini amate dai giardinieri e la marea dei bruchi che procede ingobbita a ondate distruttrici –, in una scrittura serrata, di frasi brevi, ritmate a restituire l’incalzare molteplice di compresenti visioni incrociate, la presa diretta è sempre in equilibrio tra una resa evocativa, fortemente sensoriale, impressionista, e la precisazione scientifica, entomologica, ornitologica, che si consente perfino vere digressioni botaniche.

Abile nel restituire i molti strati di vita dei luoghi, come per il mondo magico racchiuso nella pozza sotto il ghiaccio o nelle fenditure sui tronchi ripiene di funghi come ostriche, o anche per il sentiero di trillium bianchi che si buttan giù dalla china verso il torrente dove quell’enorme albero si protende come un ponte di muschio, fino ai territori invisibili che i corvi volando separano in cielo, Josephine Johnson trascorre disinvolta dalla scala ravvicinata degli interpreti della vita minuta a quella distante, d’insieme, dei loro orizzonti ecologici. Accordandosi a ritmi, suoni, colori e profumi dell’incedere naturale.