Comincia – Top Gun: Maverick – col capitano «Maverick» Mitchell (Tom Cruise) che pilota un prototipo di jet ipersonico in una base top secret del deserto californiano. Sono 36 anni che non lo vediamo – tanti ne sono passati dall’originale cult/kitsch di Tony Scott – ma ai comandi dell’aereo più veloce del mondo non può esserci che lui, l’ asso della US Navy. Uomo e aereo sono tuttavia insidiati dalla modernità che avanza inesorabile, incarnata dall’ammiraglio che vuole investire il budget dei piloti sui droni – più efficienti e letali nelle nuove guerre telecomandate. Maverick non ci sta. Alla rottamazione interpone il proprio corpo di immarcescibile sessantenne palestrato e la sua notoria allergia all’autorità. Ma dovrà infine ammettere di essere superfluo: «Non so come mollare», confessa al vecchio amico (Val Kilmer) in una scena clou. Forse lo farà, non prima però di un’ultima missione con florilegio di missili aria-terra scagliati contro un nemico senza volto e il suo deposito di uranio arricchito che va preventivamente neutralizzato per conto della Nato.

Sembra profetica la trama del film che doveva uscire due anni fa poi rimasto parcheggiato causa lockdown in attesa si potere uscire in sala con tutti i crismi di un blockbuster. Se il primo film era una specie di fantasy omoerotica maschile, qui siamo decisamente nel porno guerrafondaio, con cacciabombardieri amorevolmente accarezzati dalla macchina da presa – affusolati strumenti di supremazia morale e di potenza militare USA: la visone, nel 2022, è a dir poco problematica. Eppure, per tutto lo scintillio di missili Tomahawk e pirotecnica dei bombardamenti a tappeto in ultra HD, Top Gun: Maverick è un film sulla senescenza del maschio boomer coi suoi mortiferi giocattoli. Maverick (che negli anni intercorsi ha fatto campagne in Bosnia e in Iraq) è un cowboy crepuscolare, condannato all’estinzione, come un vecchio pistolero di Peckinpah. Padre mancato e padrino fallito, refrattario al matrimonio, (Jennifer Connelly come amante che ormai non ci conta più) si dibatte contro un’incipiente irrilevanza che cerca di obliterare a colpi di bombe, come batterie antiaeree.

Nella anteprima pre-Cannes tenuta all’American Cinématheque di Los Angeles, il regista, Joseph Kosinski , ha spiegato come la produzione abbia goduto di illimitata collaborazione da parte delle autorità militari, felici di un nuovo spot pubblicitario per il reclutamento. Ma in verità, quello di Cruise è un personaggio squisitamente rappresentativo del declino dell’occidente – con le sue guerre giuste e la sua imponente ed inutile macchina da guerra per l’esportazione delle democrazia.

Un film classico ed essenziale, mitologico come un western di Hawks, costruito attorno all’amicizia maschile e soprattutto al rapporto di Maverick con Rooster (Miles Teller), figlio dell’amico scomparso alla fine del primo film, che si trova ad addestrare controvoglia per una missione forse suicida. Un rapporto problematico che rammenta quello fra John Wayne e Montgomery Clift in Fiume Rosso. E per essenzialità «mitopoietica» raccoglie l’eredità di quei western classici, producendo un sequel che supera ampiamente la qualità dell’originale. Dopo la proiezione di Los Angeles Kosinki ha risposto alle domande del pubblico che ha accolto il film con fragorosi applausi

Come è arrivato al progetto?
Tutto è cominciato quando Jerry Bruckheimer mi ha mandato una prima stesura della sceneggiatura. Mica male per uno come me che ha visto Top Gun quando avevo 12 anni nell’unico cinema del mio paesetto in Iowa. Con Jerry avevo fatto Only the Brave (Fire Squad: Incubo di fuoco) quando ci siamo incontrati nel suo ufficio a Santa Monica mi ha detto ’devi assolutamente andare da Tom in persona. Cruise stava girando Mission Impossible a Parigi così siamo andati sul set. Ricordo che aveva mezz’ora fra due scene, siamo enrtrati in uno stanzino e gli ho parlato del rapporto fra Maverick e Rooster, fra il suo personaggio e il figlio del suo vecchio amico Goose. Poi gli ho descritto la sequenza del collaudo iniziale che a me ricorda molto Chuck Yeager e quei leggendari piloti collaudatori. Gli ho detto che avremmo girato tutte le sequenze di volo con cineprese a bordo di veri aerei. È bastato questo, ha preso il telefono li per li, ha chiamato la Paramount e gli detto: «sarà il mio prossimo film.»

Come è stata la preparazione?
Appena Tom ha dato il via è iniziato un processo di 15 mesi per capire come sistemare le cineprese negli abitacoli dei caccia. È stato un sacco di lavoro, soprattutto da parte del nostro direttore della fotografia, Claudio Miranda. Avevamo sei macchine in ogni abitacolo, quattro davanti agli attori, una per i primi piani, e un grandangolare che abbiamo usato molto perché rende bene la velocità. Due di quinta dietro gli attori e due dietro al pilota ai comandi che aveva la stessa uniforme dell’attore.

Quindi gli attori recitavano durante veri voli?
Tom è un pilota acrobatico e lui ha deciso che ogni altro attore dovesse intraprendere un addestramento di tre mesi per evitare che svenissero vomitando una volta a bordo. Prima hanno cominciato a volare i semplici Cessna, poi in aerei acrobatici, poi piccoli jet e infine i Super Hornet militari d’ordinanza. Solo dopo però aver completato il corso di sopravvivenza subacquea della marina che è davvero intenso, abbiamo potuto cominciare a girare.

Una delle scene emozionanti è quella con Val Kilmer
Sia Tom (Cruise) che Jerry (Bruckheimer), ma veramente tutti quanti, tenevamo molto al fatto che riprendesse per noi il ruolo del primo film. Ci siamo incontrati con Val, ed è stato poi lui a trovare la chiave di come integrare il suo personaggio nella storia. È stato davvero merito suo e girare quella scena con loro due e vedere il rispetto che hanno l’uno per l’altro e il fatto che si fossero ritrovati dopo non so quanti anni senza vedersi è stato memorabile.

Tom Cruise a luglio compirà sessant’anni
Già e per lui non c’è uno stunt double, gira di persona ogni scena ed è così su tutti i suoi film. Il segreto è duro lavoro. Lui è in palestra al mattino prima delle riprese, poi è in palestra la sera, dove abbiamo fatto molti incontri di produzione sugli attrezzi.

Perché lui è anche un vero produttore, giusto?
Altroché. Con Tom Cruise non si tratta certo di un titolo onorifico. Quando fai un film con Tom è una vera partnership nel miglior senso della parola. Ha quarant’anni di esperienza, ha lavorato con tutti i miei eroi del cinema. In realtà sono più io che cerco di assorbire e imparare da lui quello che lui ha imparato da loro.

La musica?
Lady Gaga ha scritto quella canzone (Hold my hand, ndr.) per il film. Io e Jerry siamo andati alla sua casa discografica per ascoltarla la prima volta ed ero abbastanza nervoso perché in fondo è Lady Gaga che ti ha scritto un originale per il tuo film e cosa succede se magari non ti piace? Chi gli dice no grazie? Ma appena la abbiamo sentita sia io che Jerry abbiamo istantaneamente avuto la stessa reazione: una melodia classica con parole stupende e una performance da non credere. E quando l’ha sentita Hans Zimmer che stava lavorando alla colonna sonora, gli è piaciuta così tanto che ci ha basato il tema principale del film.